Il Var è solo un problema culturale
In origine il Var era stato concepito per chiarire le situazioni “oggettive”. Ora si è esteso a troppi casi. Si lasci all’arbitro il compito di fare l’arbitro e non il radiologo
“Meglio poco che troppo”, è la direttiva data dai vertici arbitrali inglesi ai fischietti chiamati a dirigere in Premier League. Parafrasi: il Var c’è (purtroppo), ma usiamolo il meno possibile, magari senza le corsette a bordocampo per rivedere l’azione e perdere tempo prezioso da dedicare allo show. Oltremanica hanno introdotto tardi la novità, ma se Mourinho è contento, i tifosi lo sono molto di meno. Tutte quelle interruzioni, quei minuti persi. I club, invece, vorrebbero che la moviola fosse usata meglio, con visionature doppie o triple in grado di dare giustizia. L’esordio, a quelle latitudini, è stato drammatico, uno shock, con l’annullamento (giusto, ahinoi) di una rete a Gabriel Jesus in Manchester City-Tottenham realizzata in seguito al tocco del pallone con un braccio da parte di un compagno di squadra.
È un problema culturale, quello del Var, e c’è poco da fare. La domanda che ci si pone fin dal suo esordio è filosofica: snatura o no il giuoco del calcio? C’è chi sostiene che le polemiche sono farlocche, partorite dalla mente di conservatori identitari secondo i quali l’arbitro dovrebbe dirigere ancora in giacca, rigorosamente nera. Viceversa, c’è chi pensa che bisognerebbe compiere un passo ulteriore: monitor da visionare a chiamata (dalle panchine), immagini sugli schermi dello stadio e giudizio di fatto collettivo. Cioè la barbarie. Le polemiche, dopo ormai qualche anno dall’introduzione del supporto, non sono calate. Anzi, si è aggiunto il sospetto ulteriore – naturalmente maligno – dello spettatore rispetto a chi è deputato a rivedere l’azione incriminata. Della serie, se non danno rigore per quel fallo di mano lì, allora vuol dire che è tutta una truffa. Tesi edulcorata con l’affermazione “non si comprende perché non sia stato assegnato il penalty”. Quando la matassa è ingarbugliata c’è un’unica operazione possibile: semplificare. Chiarire la casistica in cui un determinato episodio può essere analizzato e stabilire come meglio non si potrebbe il tipo di conseguente intervento arbitrale.
In origine il Var era stato concepito per chiarire le situazioni “oggettive”, quelle in cui cioè di decisioni possibili ce n’è solo una. C’era già la gol-line-technology per verificare se il pallone supera o meno la linea di porta, bastava garantire il supporto per il fuorigioco (che è oggettivo, o si è oltre la linea immaginaria o si è dietro, tertium non datur), per i falli dentro o fuori l’area di rigore, per il gioco violento. Estensione per estensione si è giunti fino a valutare la volontarietà del fallo di mano in area – operazione rischiosissima – determinando se il tocco di per sé sempre volontario (come da nuove direttive dell’Ifab) è avvenuto con mano o braccio “oltre la linea delle spalle”, a eccezione “del caso in cui il difendente giochi il pallone con una parte del corpo consentita e, per effetto di un rimpallo, il pallone finisca casualmente sulle sue mani o braccia”. Capite bene il caos.
Per uscirne, si faccia pulizia, tornando all’origine, lasciando all’arbitro il compito di fare l’arbitro e non il radiologo: deve correre, fischiare e giudicare, non guardare moviole e riprese a velocità ridotta che spesso generano solo confusione. Le chiamate dalle panchine lasciamole agli altri sport – anche perché se un episodio clou avvenisse quando entrambe le squadre hanno esaurito i bonus per il “challenge”, che si fa? Si lascia perdere la “giustizia”? – e limitiamo l’appello al Cielo a casi concreti e oggettivi (davvero oggettivi, non il fallo di mano interpretabile): fuorigioco, condotta violenta, fallo dentro o fuori l’area di rigore. E stop.
Perché l’attuale protocollo non funziona più neanche come deterrenza: ricordate quando due anni fa si diceva che in area erano diminuite le trattenute e che i giocatori stavano bene attenti a come muovere braccia e mani? Adesso si è tornati al punto di partenza, stante la confusione interpretativa determinata da direttive concepite da chi mai ha giocato a calcio e mai – in parecchi casi – ha arbitrato. Tornare all’essenziale, insomma. Ne gioverebbe prima di tutto il gioco, la sua serietà e la salute psicologica dell’arbitro, oggi non più giudice d’ultima istanza in campo ma ridotto a essere valutato da un monitor che da bordocampo trasmette immagini al rallentatore.