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il foglio sportivo

Tutte le forme del rugby

Marco Pastonesi

In Nuova Zelanda è religione, in Inghilterra tradizione, in Sudafrica è orgoglio, in Australia sole terra e mare, in Irlanda spirito, in Galles appartenenza. In Italia invece ha perso il tram

[Anticipiamo un articolo del numero del Foglio Sportivo in edicola domani e domenica. L'edizione di sabato 21 e domenica 22 settembre la potete scaricare qui dalle 23,30 di venerdì 20 settembre]

 


 

Un mese fa, al campus degli All Blacks organizzato e ospitato dall’Asr Milano all’Idroscalo, fra lezioni pratiche su mischie chiuse e touche ridotte, fra laboratori fisici sulle maul degli avanti e sugli incroci dei trequarti, erano stati programmati anche corsi teorici. Più che tecnici, filosofici. Perché invece di spiegare le linee di spinta, invece di approfondire le linee di vantaggio, si insisteva sui valori del rugby. E Norm Maxwell, 36 “caps” (presenze) con gli All Blacks e cinque titoli del Super 12 con i Crusaders, seconda linea e poi allenatore, dall’alto del suo metro e novantotto e dei suoi centodieci chili, sosteneva come alla base di questo “gioco bestiale giocato da gentiluomini” (a differenza del “calcio, gioco da gentiluomini giocato da bestie”, e del “football americano, gioco bestiale giocato da bestie”, secondo l’aforisma del bestiale, essendo “running back” di football americano, nonché giornalista statunitense Henry Blaha) ci sia “la gentilezza”. La gentilezza? La gentilezza. Che significa educazione e attenzione, cortesie e premure, buone maniere e sane abitudini. Che significa salutarsi, sorridere, interessarsi, ascoltare, rispondere, accogliere, incoraggiare, aiutare, soccorrere, ringraziare. Che significa tutte, ma proprio tutte le voci del verbo dare. “Una buona persona viene prima di un buon giocatore”, ammoniva Maxwell, sapendo che “solo una buona persona può diventare un buon rugbista”, e che comunque nella vita, anche nella vita sul campo, “valgono di più i sacrosanti principi della solidarietà e del sostegno che non le pure cifre della forza e del peso”.

 


Illustrazione di Marta Pantaleo


 

Da oggi, in Giappone, con la partita d’inaugurazione fra la nazionale di casa e la Russia all’Ajinomoto Stadium di Chofu – e fino al 2 novembre con la finale nell’International Stadium di Yokohama per il primo e il secondo posto – si vive la nona edizione della Coppa del mondo di rugby.

 

Venti squadre in quattro gironi, poi quarti di finale e semifinali a eliminazione diretta, e le due finali secche, totale 48 partite in godimento da mondovisione (per l’Italia i diritti sono stati acquisiti dalla Rai). È l’evento di una nicchia planetaria. Quello nato soltanto nel 1987 perché frenato dai britannici più conservatori e tradizionalisti fino a generare una gelosia ossessiva e cieca, quello che oggi ha la stessa cadenza quadriennale delle Olimpiadi e dei Mondiali di calcio, e che finora è stato conquistato tre volte (comprese le ultime due) dalla Nuova Zelanda, due dall’Australia e dal Sudafrica, una dall’Inghilterra. Una gerarchia che ha radici così profonde da non prevedere, se non addirittura ammettere, modifiche o inserimenti. Eppure le differenze – come scuole – esistono, e sono evidenti. Però si tratta di differenze più come scuole di pensiero che non come scuole di gioco.

 


Tra paese e paese le differenze esistono, e sono evidenti, ma sono scuole di pensiero non scuole di gioco. Da noi per costruire una Nazionale forte abbiamo abbandonato la base. E questa si è disamorata della prima squadra


  

In Nuova Zelanda il rugby è la religione. Dio è ovale, gli All Blacks fanno parte di una casta superiore, tutti i neozelandesi sono entrati in una chiesa (un campo), tutti hanno frequentato il catechismo (il rugby a scuola, al club, al villaggio, sulla strada) e imparato la dottrina (la prima regola: si passa con le mani soltanto indietro, e questo dà il senso del bisogno, spesso urgente, di essere sostenuti da un compagno; la seconda regola: l’arbitro non si discute mai, senza di lui non si giocherebbe; la terza regola: tutte le altre regole si imparano sul campo), tutti hanno pregato (che cos’è la haka, antica danza tribale bellica e marziale, se non una preghiera collettiva, un’invocazione corale, una messa cantata?). In Nuova Zelanda il rugby è una religione, tant’è vero che si assiste alla perfetta fusione tra bianchi e neri, in cinquanta e forse più sfumature di maori; è una religione, nell’apoteosi della vittoria e nella tragedia della sconfitta, dove la maglia nera indossata come un paramento sacro per celebrare il lutto degli avversari si trasforma nel definitivo abito da cerimonia per la propria morte; è una religione, nell’atto di fede che si trasmette di padre in figlio, di nonno in nipote, di club in provincia, di provincia in franchigia, di franchigia in selezione, di selezione in prima squadra, investiti della rappresentanza dell’intero Paese. Gli All Blacks sono sempre e comunque i favoriti del torneo, anche se in questo momento non abitano più il primo posto nella graduatoria mondiale, sconfitti quaranta giorni fa dall’Australia 47-26. Perché i TuttiNeri sono quelli che vincono anche quando perdono, sono quelli che quando vincono allora vincono tutti (si dice così, ma forse senza pensare almeno al pensiero dei rivali storici sudafricani e australiani), sono quelli che fanno correre il pallone finché il pallone non si rimpicciolisce fra le mani o sotto le braccia di uno che corre più veloce del pallone stesso (Jonah Lomu, ricordate “L’Uragano nero”?).

 

In Inghilterra il rugby è la tradizione. Rugby, due ore di auto a nord di Londra, la Betlemme non in una capanna ma in un college, i Re Magi non astronomi zoroastriani ma rettore e professori di quello stesso istituto scolastico, il padre putativo non un falegname ma un calzolaio (Gilbert) destinato a diventare il nome, il marchio, l’emblema dei palloni bislunghi perché (i diritti d’autore spettano all’All Black Justin Marshall) contengono più valori di quelli che stanno nei palloni rotondi. La tradizione del rugby nelle scuole, nelle università, nei club, nei pub, nei musei, nei templi come Twickenham, negli inni come “Swing Low Sweet Chariot”, addirittura nella supponenza che accompagna gli inglesi in qualsiasi sfida e in qualsiasi trasferta, tanto da renderli gli avversari di tutti. Il professionismo, ufficialmente cominciato nel 1995, ha dovunque aumentato le basi per le altezze, cioè ha ingigantito i fisici e moltiplicato impatti, sportellate e, inevitabilmente, infortuni. Ma solo adesso i TuttiBianchi, che hanno sempre interpretato le partite in modo muscolare e osseo, più scontri che confronti, quasi in modo metallurgico, con la direzione dell’australiano Eddie Jones e i calci di Owen Farrell, hanno raggiunto quell’equilibrio tra solidità e cinismo che li pone in cima a previsioni e scommesse.

 

In Sudafrica il rugby è l’orgoglio. L’orgoglio razzista di una disciplina inizialmente riservata soltanto ai bianchi, l’orgoglio umanitario di uno sport finalmente aperto anche ai neri (l’esordio mondiale solo nel 1995, da Paese ospitante; lo slogan “One Team, One Country”, una squadra una nazione, a sottolineare il progetto dell’integrazione; la presenza di Nelson Mandela, non più carcerato ma presidente; e il film “Invictus”, come fiabesco passaporto universale), l’orgoglio di un gioco fondato sulla potenza degli avanti (per esempio: il cattivo Shalk Burger) e la velocità dei trequarti (per esempio: il felino Bryan Habana). Gli Springboks hanno vissuto almeno tre terribili onte: la sconfitta contro il Giappone nella Coppa del mondo 2015 (34-32), la batosta contro l’Italia in un test-match del 2016 (20-18), il tracollo contro gli All Blacks nel 2017 (57-0). Ma recentemente sono tornati ai massimi livelli. E sabato c’è quello che sudafricani e neozelandesi sono concordi nel ritenere un “clash”, un conflitto: Springboks-All Blacks, primo match e già decisivo per definire la griglia della successiva fase a eliminazione diretta, calcio d’inizio alle 11.45.

 

In Australia il rugby è sole terra mare, è raggi prati onde, è surf sull’erba. E se in Irlanda il rugby è spirito (e lo spirito è santo: i Verdi sono al primo posto nel ranking, di un niente, 89,47 punti contro l’89,40 degli All Blacks), in Scozia è vento, in Francia è passione, in Galles è appartenenza. Era lo sport dei poveri per i poveri il rugby a Cardiff e dintorni, così come di poveri e per poveri era il ciclismo in Italia. Ma se i corridori italiani venivano dalla campagna, i rugbisti gallesi emergevano dalle miniere, e l’origine “underground” li favoriva: i campi di fango sembravano celestiali rispetto ai giacimenti di carbone, le trincee delle mischie apparivano paradisiache confronto all’apnea dei cunicoli. Il rugby dei Dragoni ha saputo mantenere quei valori territoriali e terreni, paesani e nazionali, campanilistici e patriottici. A Cardiff, a Newport, a Llanelli si respira l’autentico senso della squadra, dove la squadra si allarga dal paese al Paese, dalla famiglia alla nazione. Si dice che in Galles possa succedere di segnare più punti dei gallesi, ma mai di batterli. Però stavolta si è dall’altra parte del mondo.

 

Se ci sarà una sorpresa oltre al neozelandizzato Giappone, allora l’Argentina. Gli argentini, si recita, sono italiani che parlano spagnolo e si credono inglesi, ed è per questo che nel rugby sono cresciuti fino a diventare i tremendi Pumas. Da quando nel 2012 sono stati accolti nel TriNations (oggi Four Nations) con All Blacks, Wallabies e Springboks, gli argentini hanno guadagnato in fiducia e credibilità, organizzazione ed equilibrio, rispetto e risultati. In programma alla Coppa del mondo, sabato, anche un’invitante Argentina-Francia (ore 9.15), oltre a un’interessante Australia-Isole Figi (ore 6.45).

 

E l’Italia? In Italia il rugby sembra aver perso il tram. Puntando a costruire una forte prima squadra, si è troppo spesso abbandonata la base, e la base si è disamorata della prima squadra. Senza campi e senza tecnici, il rugby azzurro – quello di base – coltiva più successi umanitari che non agonistici, guadagna più riconoscimenti sociali che non sportivi. Dimissionario il tecnico irlandese Conor O’Shea, il suo probabile successore, il gallese Rob Howley, assistente allenatore dei Dragoni, è stato appena allontanato dalla Coppa del mondo per aver infranto le regole sulle scommesse, puntando proprio sul Galles. Certo, non il migliore biglietto da visita. In Giappone, inseriti nel gruppo contro gli irraggiungibili All Blacks e Springboks, gli Azzurri se la vedranno contro Namibia (domenica, ore 7.15)) e Canada (giovedì 26 settembre, ore 9.45). Se conquistassero due vittorie, vincerebbero, nel loro piccolo, il nostro Mondiale.

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