il foglio sportivo

Il Bologna del papa Mihajlovic

Alessandro Bonan

Spesso il calcio è come un reality, L’isola dei famosi, dove si discute per una noce di cocco dimenticata sulla spiaggia. L'esempio della città felsinea

Adesso tutti a guardare se Brozovic passerà il pallone a Lukaku, e viceversa. Perché partito un croato, se ne fa un altro, e partito un centravanti, se ne fa un altro. In una spirale di chiacchiere senza fine che trasformano un’offesa in dieci pugnalate, una lucertola in Godzilla. Con il fluido letale del pettegolezzo che filtra dalla porta dello spogliatoio, e avvolge tutto. La gente, invece di scappare davanti a questa massa gelatinosa, ci s’imbeve, nuota soddisfatta, felice di aver guardato dal buco della serratura e scoperto quanto sia povero il mondo anche quando è ricco. Povero come lo siamo tutti. Il calcio come un reality, L’isola dei famosi, dove si discute per una noce di cocco dimenticata sulla spiaggia. Mettete un pallone al posto della noce, e un campo verde al posto della spiaggia, il risultato è uguale. Piccolezze giganti, il nulla, che comunque è, come sosteneva un antico filosofo.

 

Eppure se confrontiamo questo nulla a ciò che succede a pochi chilometri da Milano, ci rendiamo conto di quanto siamo sbagliati, illusi e sbandati.

 

A Bologna lo spogliatoio è aperto, spalancato. Non c’è bisogno di guardare dal buco della chiave, ci si affaccia e non si trova nessuno. Dov’è la squadra? Tutto tace, le maglie rossoblù dei calciatori sono gettate alla rinfusa sulle panche, negli armadietti. La squadra non c’è. E non è nemmeno sul campo ad allenarsi, e neppure lontano, ognuno in famiglia, a riposo. La squadra non si trova. Giungono delle voci distanti, dei cori, i soliti ultras, viene da pensare. E invece no, la squadra si trova sotto una finestra d’ospedale. Grida, schiamazza, festeggia davanti ad un luogo di sofferenza che per qualche minuto viene dimenticata. Si affaccia l’allenatore, sembra un papa, sorride, benedice, proprio come un papa. La squadra ha vinto, ha vinto per lui, si è stretta per lui. Era perduta, quasi spacciata, è risorta. Quel papa si chiama Sinisa, nome che evoca, nella sua lingua, il significato di figlio. Il “figlio” Sinisa è un padre malato. Ogni domenica riunisce in qualche modo la sua seconda famiglia per combattere il dolore e vincere la partita. Il Bologna lo segue ciecamente, senza divisioni, senza condizioni. Il padre/figlio è la luce che orienta anche a distanza, magari dentro un telefono, dal quale, gracchianti, arrivano le sue parole: quando di rimprovero, quando di lode. L’immagine complessiva, il quadro verrebbe da dire, è un dipinto di gioia, condivisione e speranza. E’ davanti a questo quadro che è giusto perdersi, emozionarsi. Dimenticando i battibecchi sulla spiaggia, in cerca tra la sabbia di una piccola, quanto insignificante, noce di cocco.

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