La Roma di Fonseca e lo strano viaggio della strana coppia Dzeko-Kolarov
Se i tifosi giallorossi esultano in campionato devono ringraziare soprattutto questi due giocatori, che dovevano partire e invece sono rimasti e hanno messo a segno sei delle dieci reti della squadra
È la felicità di chi riesce ad aggiudicarselo al Fantacalcio, come lo sono tutti i difensori che segnano e per i quali ci si svena alle aste tra amici o colleghi. Dal ritorno in Italia, avvenuto nel 2017, Aleksandar Kolarov si è scoperto maestro dei calci da fermo: 8 reti la passata stagione, quando è diventato il rigorista della Roma, già tre in quattro partite di quella attuale. Perché, nel frattempo, ai tiri degli undici metri ha aggiunto anche una tecnica sulle punizioni così ben affinata da riportarlo al centro dell'attenzione, pur avendo superato abbondantemente da tempo i trent'anni. E oggi Kolarov si trova davanti soltanto l'inarrivabile Leo Messi in quanto a realizzazioni: sono sei in maglia giallorossa, contro le dodici della Pulce per il Barcellona nello stesso biennio. Molto di più di quanto combinato dal tanto celebrato Cristiano Ronaldo, uno che in campionato non l'ha ancora buttata dentro quando deve superare una barriera, nonostante voglia calciare sempre lui.
L'ultima prodezza il serbo l'ha regalata domenica pomeriggio in casa del Bologna, primo passo di una vittoria arrivata all'ultima azione utile con il 2-1 di Edin Dzeko. Kolarov e Dzeko, per dimostrare quanto sia buffo e assurdo al tempo stesso il calcio in Italia. Buffo perché i due sembravano tra i primi candidati a lasciare la Roma a fine stagione: il terzino perché definito deluso dall'ambiente, il secondo perché oggetto del desiderio del mercato dell'Inter. Alla fine non se ne è fatto nulla, e se la Roma dell'esordiente Paulo Fonseca viaggia veloce, deve proprio ringraziare questa strana coppia, che ha messo a segno sei delle dieci reti giallorosse.
L'assurdità è invece legata al modo in cui Kolarov ha dovuto gestire la sua seconda avventura italiana, una volta lasciato il Manchester City nel 2017. Ci era andato nel 2010, dopo tre anni di Lazio, la sua prima squadra in serie A. Con un passato simile, era logico aspettarsi – in una città di rivalità profonde qual è Roma – che per il serbo sarebbe stato problematico approcciarsi alla nuova realtà. Invece questo passato non è riemerso, grazie anche alla professionalità con cui il terzino sinistro si è inserito nella nuova realtà: doveva essere il sostituto momentaneo dell'infortunato Emerson Palmieri, ha finito per trasformarsi in un titolare apprezzato per il rendimento e che ha permesso al club una sostanziosa plusvalenza a gennaio 2018, con la cessione dell'italo-brasiliano al Chelsea.
Un feeling durato fin quando si è prolungata la stagione dei buoni risultati. A fine novembre 2018, nel momento in cui la squadra di Eusebio Di Francesco è andata in affanno, le critiche sono partite inesorabilmente. E senza salvare nessuno, secondo le dinamiche proprie di chi, in Italia, si ritiene interprete assoluto e inappellabile della fede calcistica, con relativi giudizi tecnici e morali sui giocatori. Un monoteismo infrantosi contro l'agnosticismo di Kolarov: “I tifosi hanno diritto a essere arrabbiati, ma devono anche essere consapevoli che di calcio ne capiscono poco – la replica – Parlo dei tifosi in generale, non solo quelli della Roma. A me piace tanto il tennis, ma non ci capisco niente: non mi permetterei mai di dire a Djokovic come dovrebbe giocare solo perché è serbo come me”. Parole che hanno scatenato effetti a catena, tra un litigio con un altro tifoso alla stazione di Roma Termini dopo aver perso 7-1 in Coppa Italia con la Fiorentina (tirando in ballo le madri, stavolta), l'inchino polemico di Kolarov alla curva giallorossa in trasferta a Verona dopo un gol, le scritte offensive comparse davanti alla casa del giocatore in cui - non si sa se con etnica perfidia o per semplice ignoranza – gli davano del “croato di m...”.
Rapporti che affondavano insieme con la squadra malferma in campionato e con la società impelagatasi a fine stagione nella pasticciata gestione dell'addio di due bandiere storiche: Daniele De Rossi che salutava con il desiderio di giocare ancora (poi esaurito dal Boca Juniors) e Francesco Totti che si congedava perché non lo lasciavano lavorare da dirigente come avrebbe dovuto. Separazioni in cui molti tifosi avrebbero voluto vedere coinvolto anche Kolarov, ma le dinamiche del pallone hanno scelto diversamente, per fortuna della Roma. E di chi magari oggi applaude Kolarov dopo averlo maledetto.
Il Foglio sportivo