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Niente di nuovo sotto il sole. Quando il Milan perdeva quasi sempre

Gino Cervi

Un'inizio di campionato così ai rossoneri era capitato soltanto all’inizio della stagione 1938-39. In 120 di storia casciavit non sono stati pochi i periodi di vacche magre

Una partenza così disastrosa (6 partite, 4 sconfitte e 2 vittorie) era capitata soltanto all’inizio della stagione 1938-39. Si era però nel pieno degli anni grigi e senza vittorie del Milan casciavitt. Sì, perché in questo mondo senza memoria storica, tutti pensano che la storia del Milan sia sempre stata sons et lumiere, paillettes et cotillons, scudetti e Coupes des Champion. Mica vero.

  

In 120 anni di storia (si compiono il prossimo dicembre) non sono stati pochi i periodi di vacche magre. Quest’ultimo, dura dal 7 maggio 2011, da quando a Roma, allo Stadio Olimpico, l’arbitro Morganti fischiò la fine della partita (0-0 coi giallorossi) e consegnò ai rossoneri con due giornate di anticipo il loro 18esimo e ultimo scudetto. Otto anni: in mezzo, la smobilitazione della società berlusconiana, il passaggio ai fantomatici cinesi e il “salvataggio” del fondo Elliott, e, sul campo, solo fugaci comparsate in Champions League (fino agli ottavi sia nel 2012-13 sia nel 2013-14), meste eliminazioni in Europa League (agli ottavi nel 2017-18, addirittura nella fase a gironi nel dicembre del 2018), brucianti sconfitte nelle “partite che contano” di campionato, senza dimenticare due finali di Coppa Italia e una di Supercoppa perse da vittime sacrificali porgendo la giugulare ai vampiri juventini (maggio 2016, maggio 18 e gennaio 2019). I due successi in Supercoppa italiana (il sesto, agosto 2011 contro l’Inter, e il settimo, dicembre 2016, contro la Juve ai rigori, con gol decisivo di Pašalić) sono serviti più a illudere che a lenire la depressione.

 

Ma a ben vedere questi otto anni di vacche magre sono una bazzecola al confronto di quello che accadde (o non accadde) tra il 1907 e il 1944, il tempo che passò tra il terzo titolo nazionale (1907) e il quarto (1951): 44 anni, un’astinenza di vittorie che sembrò davvero interminabile.

 

Un lungo declino

Il declino sportivo del Milan inizia infatti l’indomani del terzo scudetto, nel 1907. Per alcuni anni il blasone viene tenuto alto, nonostante il cambio generazionale in campo e nella dirigenza e la scissione dei fuoriusciti nerazzurri (1908). Gli anni che precedono e poi vivono la Grande Guerra, in cui l’attività agonistica si riduce drasticamente, portano assai poche soddisfazioni. Ma il peggio deve ancora arrivare, e nessuno lo sa.

  

Forse tantomeno il presidente Piero Pirelli, eletto proprio nel 1909 e che per vent’anni guiderà la società senza portarle il prestigio e il successo che invece contraddistinguono la sua ascesa nazionale e internazionale di gran capitano d’industria. Unico segno tangibile, e rimasto immutato nel suo fascino non solo simbolico, è lo stadio di San Siro, inaugurato nel 1926 e realizzato proprio grazie all’intraprendenza immobiliare della presidenza Pirelli. Che sia un caso il fatto che il Milan arranchi penosamente nelle retrovie della classifica del campionato 2019-20 proprio nei giorni in cui si parla di radere al suo la sua storica vecchia casa? Che ci sia una maledizione come quella che una leggenda vuole che nel 1908 i 44 fuoriusciti dalla società rossonera per fondare cugini rivali stracittadini scagliarono contro i “cugini”: “Non vincerete più per tanti anni quanti siamo noi, soci fondatori dell’Internazionale”? E infatti si aspettò davvero 44 anni…

  

La verità era che il Milan tra le due guerre rimane al palo rispetto all’evoluzione dell’intero movimento calcistico nazionale. Sotto l’aspetto strettamente tecnico, la squadra sembra risentire dall'incapacità di affrancarsi dalle sue origini anglosassoni. Nel dopoguerra gli altri club (dall’Inter al Bologna, dal Torino al Genoa e, a partire dalle metà degli anni Venti, alla Juventus, da poco passata sotto la proprietà degli Agnelli) si danno una nuova organizzazione societaria e, sul campo, si adeguano tecnicamente e tatticamente ai tempi aprendosi alle influenze della scuola danubiana tra Austria, Ungheria e Cecoslovacchia, e poi all’apporto dei primi campioni argentini e uruguaiani. Il Milan resta invece ancora legato agli ideali del dilettantismo e continua a praticare un gioco prettamente atletico, muscolare, poco tecnico e niente affatto raffinato.

 


Operaismo e autarchia per reazione

Il Milan tra le due guerre è un Milan “operaio”, che pare identificarsi con le radici popolari della città e con gli abitanti della periferia proletaria. Questo succede nonostante la fondazione della società, venticinque anni prima, sia stata il frutto di una particolare congiuntura sociale – verificatasi peraltro anche in altri contesti urbani, come Genova e Torino –: ossia la libera iniziativa di alcuni cittadini britannici di stanza a Milano per motivi professionali e intenzionati a diffondere la pratica del foot-ball, come si scriveva un tempo, sulla quale si è innestata la curiosità di quei rampolli della borghesia industriale e commerciale, quando non addirittura dell’aristocrazia milanese, identificabili con la moderna figura dello sportman, il giovane uomo attratto dalle attività ricreative all’aria aperta.

 

Proprio l’idea un po’ “aristocratica” della pratica sportiva, incarnata peraltro dal paternalismo imprenditoriale dei Pirelli, è una delle cause del tardivo e incerto adeguamento del Milan rispetto alla trasformazione verso il professionismo, all’’interno della quale forti investimenti economici, in termini di ingaggi e contratti di giocatori, allenatori e dirigenti, diventavano imprescindibili.

 

Per rimanere sul confronto stracittadino, l’Internazionale stava invece al passo dell’evoluzione calcistica e nello stesso intervallo di tempo arricchiva la propria bacheca sociale con 5 titoli nazionali e di una Coppa Italia. Successi che riempivano la bocca dei bauscia, i boriosi tifosi nerazzurri, espressione della piccola e media borghesia urbana che, soprattutto durante il Ventennio, stava realizzando la propria scalata sociale. Per restare ai soli derby di campionato, dall’istituzione della seria A a girone unico, dal 10 novembre 1929, su 17 incontri, l’Inter, o meglio l’Ambrosiana, ne vinse 10 e ne pareggiò 7, prima di cadere, il 20 febbraio 1938, nell’1-0 firmato da Egidio Capra, detto “Mao”, abbreviazione, pare, di “Maometto”, soprannome nato dal bruno incarnato dell’ala destra lodigiana che lo faceva sembrare un… saraceno.

 

Per i ganassa interisti, abituati a vincere, i rivali erano poca cosa, umili strumenti della loro vanagloria: in altre parole, casciavit, cacciaviti, come l’utensile simbolo della classe operaia. Ma a questa definizione intenzionalmente spregiativa, il popolo milanista si affezionò al punto da appropriarsene.

 

La differenza di caratura tecnica tra le due squadre tocca la sua massima forbice negli anni Trenta, quando a fronte di un’Ambrosiana-Inter – questo il nome che dal 1932 assume l’Ambrosiana, nata dalla fusione, nel 1928, tra Internazionale e Unione Sportiva Milanese – in cui brilla la stella di Peppino Meazza e altri degni campioni comprimari – da Allemandi a Serantoni, da Locatelli a Giovanni Ferrari, da Demaria a Frossi – il Milan risponde con una specie di versione meneghina dell’autarchia di regime.

 

Si arriva a sostenere che i soli giocatori a essere degni di indossare il rossonero debbano avere come requisito una fluente parlata dialettale, se non milanese, quanto meno lombarda: “Se parlen no el milanès, come Perversi e Bonizzòn, van minga ben per el Milan”. Luigi Perversi, detto Gino, classe 1906, esordisce nel 1925 con Vittorio Pozzo e gioca nel ruolo di terzino fino alla stagione 1939-40, disputando 341 partite senza mai segnare un gol. Così lo descrive un dettagliato ritratto del Calcio illustrato del febbraio 1933 a firma Mario Rossi: “Ne ammirate la potenza fisica, l’esuberanza dell’azione, l’impegno che egli sfoggia in ogni partita: in una parola, lo apprezzate perché è un vero atleta ricco di qualità morali, e le prime qualità morali di un calciatore sul campo si sintetizzano nell’impiego assoluto di ogni energia per una onesta e coscienziosa difesa delle probabilità di vittoria della propria squadra. Perché di Perversi si potrà dire talvolta che non è in forma, che è in cattiva giornata, ma non si dirà mai che ha combattuto senza impegno e senza volontà”. A far affiatatissima coppia con Perversi nella linea della difesa rossonera, è Giuseppe Bonizzoni che forse il milanese non lo parlava così fluentemente, essendo nato a Genivolta, nel cuore della campagna cremonese. È sempre un cronista dello Sport illustrato (febbraio 1937) a tessere le lodi di quel «buon figliolo» del Pino: “Alla generosa attività di Perversi fa riscontro l’ammirata, superba calma, i nervi a posto, le idee chiare del terzino estremo, tempista come pochissimi altri […]. Chi ha visto il cremonese ciarliero, esuberante, ebbro di gioia anche in occasione delle più memorabili affermazioni? Nessuno sicuramente: 'Pino' esce a fronte alta dal terreno di gioco perché in ogni partita da tutto se stesso, e levata la maglia ritorna quel buon figliolo serio, composto, che tutti conosciamo». Dal 1931 al 1940, Bonizzoni gioca in maglia rossonera 266 partite, facendo un po’ meglio del collega di reparto: 2 gol.

 

Ora i nostri attuali Perversi e Bonizzoni passi che non parlino il milanese, e che si esprimano in spagnolo e in turco, in arabo e in polacco. Il problema vero è che parlano male col pallone, non se la intendono proprio con la sfera, questa sconosciuta. E dunque come venirne fuori da questa Babele rossonera improvvisamente analfabeta, tanto più che il tecnico in conferenza-stampa parla come un filosofo esistenzialista sordomuto? Si deve attendere tutti chiusi in un cenacolo l’arrivo della fiammella di una Pentecoste calcistica? O la palingenesi finanziaria di una multinazionale del lusso pronta a schierare in attacco un Moët-Chandon a fianco di un Krug, sotto la regia ispiratrice di una vedova Cliquot?

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