In un paese che disprezza il diverso, l'atletica ha qualcosa da insegnare
Il fair play nasce dalla fatica, non esiste genio e sregolatezza. Si può convivere combattendo per lo stesso obbiettivo e si può abbracciare chi ci ha appena battuto
Il quinto giorno di gare allo stadio Khalifa regala buone emozioni alla spedizione azzurra: Tamberi, Re, Folorunso e Pedroso passano il turno, Stecchi ottiene un discreto ottavo posto nella finale del salto con l’asta con 5,70 m anche se sicuramente lui e uno dei suoi due allenatori che ho incontrato a Casa Atletica Italiana, Giuseppe Gibilisco (che lo segue con Riccardo Calcini), Campione del Mondo a Parigi nel 2003 con 5,90m, si aspettavano qualcosina di più.
Mentre vi scrivo è appena terminata la gara di salto con l’asta e stanno sfilando sotto di me i primi tre classificati lo statunitense Kendriks, il giovanissimo svedese Duplantis ed il polacco Lisek, belli, forti e giovani, avvolti nelle bandiere dei loro paesi. Al termine dell’ultimo salto dello svedese che ha incoronato l’americano campione del mondo i due si sono abbracciati, è stato un abbraccio sincero, certo, in chi ha perso c’era rammarico, delusione, ma rispetto ed ammirazione per il compagno di avventure che, oggi, è stato più forte. Vi assicuro che questo buon senso, questa educazione, non nascono dal distacco verso il risultato, un atleta vive per il suo risultato, ogni secondo della sua giornata pensa a come migliorare, ogni sogno che fa durante la notte è collegato al suo obbiettivo.
Lo stile che vediamo in campo in questi giorni, il fair play, nasce dalla fatica, dalla costrizione al rispetto delle regole, dal riconoscere che sono gli avversari a qualificarci. Non esiste genio e sregolatezza in atletica, vi assicuro che anche quello che vi può sembrare il più esuberante campione, “dietro le quinte” è un professionista rigoroso. Sui campi di atletica veniamo educati fino da bambini, prendiamo ad esempio il rapporto con gli arbitri: in questo sport se il verdetto è salto o lancio nullo oppure falsa partenza, non puoi correre ad urlare in faccia all’arbitro le tue ragioni come nel calcio, se pensi di aver subito un’ingiustizia, ti dai una calmata, fai ricorso e, dopo la gara, capisci se avevi ragione o meno. Unito al fatto che, tanto per dirne una, è il cronometro o il metro a dirti se sei forte, se vai alle Olimpiadi, se puoi stare in squadra, non l’allenatore, tuo padre o il tuo vicino di casa.
Tutto questo è molto, molto educativo, ed ho solo fatto un paio di esempi. In un paese, come l’Italia, dove ormai non c’è limite al peggio nel disprezzo del diverso, nella dialettica tra opposti, il mio consiglio è di accendere la televisione ed imparare come si può convivere combattendo per lo stesso obbiettivo, come si può abbracciare chi ci ha appena battuto, come si possa ritrovare noi stessi nel volto di qualcuno che vive dall’altra parte del mondo.