Il Foglio sportivo
Più Bernardo Silva, meno Ole Gunnar Solskjær
La gogna antirazzista per un tweet del giocatore del City e la rassegnata mediocrità dello United
I tifosi del Manchester United stanno cominciando a chiedersi se quello che stanno vivendo sia un incubo o una candid camera. Trasformatisi da qualche tempo nel Milan della Premier League, i Red Devils alternano vittorie di rapina, pareggi di culo e sconfitte imbarazzanti in campionato ed Europa League. Ciò che fa più impressione, però, è la serenità dell’allenatore: Solskjær sorride, ostenta una paresi divertita di fronte a qualsiasi cosa succeda in campo e parla come se fosse l’allenatore dello Sheffield United (“pareggiare in trasferta e vincere in casa è una cosa positiva”). Forse fa bene, costringe tutti a un bagno di realismo: lo United non è più quello di Ferguson (ma neppure quello di Mourinho, che qualcosa ha combinato e vinto), prima ce ne accorgiamo meglio è. Il peso della storia tende a tramortire chi non è capace di portarlo, e in tempi frettolosi come questo rischia di bruciare anche i più piccoli tentativi di ricostruzione. Sia chiaro, Solskjær fa giocare i Diavoli Rossi come la Sampdoria, dopo avere firmato il contratto durante la scorsa stagione ha perso cattiveria, idee e fortuna. Ma se dopo tutti questi anni a Manchester ancora rimpiangono Sir Alex è perché, a differenza di altre squadre, negli ultimi tempi lo United era lui.
Il brand si porta ancora molto in giro per il mondo, Pogba è cool e il rinnovo di contratto a De Gea una buona notizia per loro. L’impressione però è che mezza squadra vorrebbe essere da un’altra parte, e l’altra metà non ha ancora capito dov’è. Che ve lo dico a fare, voi avete il cadavere di un Milan che non c’è più che si aggira per la vostra Serie A, in balìa di scelte di mercato non all’altezza, poca pazienza da parte dell’ambiente e stories di Instagram che diventano notizie. Certo, per una volta non posso essere io a farvi la lezione, soprattutto se si parla di social network e calcio: la Premier League attende da giorni che la Football Association si pronunci su uno dei casi di razzismo percepito più surreali di sempre.
L’attaccante del Manchester City, Bernardo Silva, è sotto inchiesta per un tweet con contenuti ritenuti discriminatori ai danni del compagno di squadra Benjamin Mendy. Nel tweet c’è una foto di Mendy da bambino, e il logo dei cioccolatini spagnoli “Conguitos”, un personaggio dalle fattezze di un bambino africano. “Indovina chi?”, il commento di Silva. Il tweet ha divertito molto il compagno e amico Mendy, ma poiché viviamo in correttissimi tempi di polizia del pensiero, un’associazione antirazzista lo ha segnalato alla Football Association, che ha accusato Silva di “violazione aggravata” delle regole per riferimenti “espliciti o impliciti, alla razza e/o al colore e/o all’origine etnica”. Inutili gli appelli dello stesso Mendy, di altri compagni che hanno difeso Silva, di Guardiola che si è incazzato e ha difeso il proprio giocatore. Ora Silva rischia sei giornate di stop, ma finalmente qualcuno si accorgerà che la questione del razzismo nel calcio rischia di diventare la parodia di se stessa. Bravissimo Pep a evitare il sempreverde “Bernardo ha sbagliato ma la sua intenzione era quella di scherzare”, e a insistere sull’assurdità di definire razzista quel post. Tutto inutile, temo: i custodi di ciò che si può dire e non dire hanno bisogno di carne fresca tutti i giorni. Da quando il calcio ha smesso di essere uno sport ed è diventato ente di educazione del popolo non si può nemmeno scherzare tra compagni di squadra. E poco importa quale sia la tua opinione: a quella pensano gli altri, pena l’esclusione dal consesso dei presentabili.