Il basket pol. corr. nel cesto di Xi. La Cina stoppa l'Nba
Può un tweet a favore di Hong Kong mandare in crisi il campionato americano di pallacanestro? Sì. Star e coach, sempre pronti a schierarsi contro Trump per i diritti civili, questa volta sono rimasti in silenzio
Che la Cina non garantisca libertà di espressione ai propri cittadini è cosa nota, che metta in atto delle politiche per ridurre quella dei paesi occidentali è invece un tema meno esplorato. L’ultimo caso risale a pochi giorni fa, quando Daryl Morey, general manager degli Houston Rockets, squadra di basket della Nba, ha twittato la scritta “Lotta per la libertà. Supporta Hong Kong” a sostegno delle proteste che perdurano nel protettorato cinese da quando, questa estate, è iniziata la discussione parlamentare di una legge che permetterebbe l’estradizione dei cittadini nella madre patria. Nonostante Twitter sia censurato sul territorio cinese dal 2009, il tweet non ha lasciato indifferenti le autorità di Pechino che hanno subito alzato la voce pretendendo scuse e annunciando conseguenze pesantissime. Gli Houston Rockets sono stati in passato la squadra di Yao Ming, l’unico giocatore cinese di un certo livello che la storia del basket ricordi, per questo motivo sono ancora oggi il team più seguito in Cina: in occasioni speciali indossano persino canottiere con il lettering in caratteri cinesi. Dalla prospettiva degli americani il mercato cinese è il secondo al mondo, con oltre 600 milioni di persone che la scorsa stagione hanno visto una partita della Nba e pagato un terzo degli abbonamenti globali al servizio di streaming.
Dopo il tweet, il partito comunista cinese ha fatto muscolare sfoggio del controllo assoluto che possiede sull’intera società: la lega di basket nazionale ha rescisso i suoi accordi di collaborazione con la Nba, servizi di streaming e canali televisivi hanno sospeso la trasmissione delle partite e il merchandising è sparito da diversi e-shop, così come sono stati annullati alcuni eventi già programmati in Cina. In un primo momento le reazioni americane sono state singolarmente prone al dettato cinese, il proprietario dei Rockets, Tilman Fertitta, si è affrettato a dissociare la franchigia dal tweet, lo stesso Morey ha chiesto scusa, specificando che non voleva offendere nessuno. La Nba ha rilasciato un comunicato in puro slang corporate che è riuscito nel non agilissimo compito di scontentare tutti: i cinesi, i difensori della libertà di opinione e anche quelli della logica. Da un lato infatti la lega riconosceva che il tweet “aveva offeso molto gli amici e i fan cinesi” e questo era “spiacevole” subito dopo però accennava non a una difesa del semplice e lineare “freedom of speech”, quanto piuttosto al sostegno “all’educazione delle persone e alla condivisione dei punti di vista sulle cose per loro rilevanti”. La Cina d’altro canto si dimostra da tempo ipersensibile, nel 2018 ha vietato la distribuzione di un film che vedeva Winnie the Pooh fra i protagonisti perché su internet erano apparsi dei meme che evidenziavano la somiglianza fra l’orsetto bonaccione e il presidentissimo Xi Jinping. Quando il comedian John Oliver ha parlato nel suo show di questa simpatica similitudine e dell’abitudine, meno gradevole, dei cinesi a violare sistematicamente i diritti umani, il servizio di streaming di Hbo dove va in onda il programma è stato immediatamente bloccato in tutta la Cina.
Winnie the Pooh compare anche nella risposta data al regime dai creatori di South Park, show oggetto di un’altra censura cinese per via del suo ultimo episodio “Band in China”. “Come la Nba, diamo il benvenuto ai censori cinesi nelle nostre case e nei nostri cuori. Anche noi amiamo i soldi più della libertà e della democrazia. Xi non assomiglia per niente a Winnie the Pooh. (…) Lunga vita al Grande Partito Comunista cinese! Possa il raccolto di sorgo essere copioso questo autunno. Va bene così Cina?”.
Nell’episodio – disponibile in streaming gratuito sul sito dello show – i personaggi di South Park formano una band musicale e vengono costretti da un discografico statunitense a edulcorare i loro testi, rimuovendo i riferimenti all’omosessualità, al Dalai Lama e a qualsiasi altro argomento che possa impedire la diffusione della loro opera sul mercato cinese. Durante la puntata appare anche – rinchiuso in un carcere cinese – uno spaesato Winnie the Pooh, sempre lui. La storia di prodotti culturali statunitensi modificati per ottemperare ai desiderata del partito comunista non è certo un’invenzione di South Park, già nel lontano 2006 era stata tagliata da “Mission Impossible III” una scena in cui apparivano dei panni appesi fra due palazzi di Shanghai, considerata disonorevole. I casi sono molti, nel film del 2012 Red Dawn, ad esempio, l’esercito cinese nel ruolo del nemico è stato sostituito in post produzione da quello nordcoreano. Più di recente nel remake di “Top Gun” – film co-finanziato da Tencent – dalla giacca di pelle di Tom Cruise sono sparite le toppe con le bandiere del Giappone e di Taiwan presenti nel primo film. Con un clima del genere – e soprattutto con la presenza crescente di co-produttori cinesi – film hollywoodiani come “7 anni in Tibet” o “L’angolo rosso” oggi sarebbero impossibili da realizzare. Non è esente dall’influenza cinese nemmeno un altro enorme comparto dell’intrattenimento: quello del gaming. Un caso recente ha visto Blizzard Entertainment, gigante americano da 7,8 miliardi di ricavi nel 2018 e creatore di War of Warcraft, negare un importante premio in denaro e squalificare per un anno un giocatore professionista che si era permesso di inneggiare alla libertà di Hong Kong. Anche i due giornalisti che lo avevano intervistato sono stati licenziati in tronco. Pressioni – efficaci – sono state fatte dalla Cina anche sulle compagnie aeree perché smettessero di indicare Hong Kong e Taiwan come nazioni indipendenti sui loro siti internet. Lo stesso tipo d’indicazione geografica che stampata su una t-shirt ha costretto Versace a delle scuse precipitose, la maglietta per altro conteneva anche un refuso nel nome “Brussels” ma non risultano richieste di scuse da parte del governo belga.
Il caso degli Houston Rockets salta comunque all’occhio perché la Nba negli ultimi anni è diventata una specie di sogno liberale e meritocratico su scala mondiale: non importa dove nasci e che aspetto hai: se sei in grado di giocare a livello dei migliori ad aspettarti ci sono parecchi milioni di dollari. L’Mvp della scorsa stagione è stato un greco di origine africana, la migliore matricola un diciannovenne sloveno bianchissimo che gioca come una star trentenne. La Nba in passato ha preso apertamente le difese di Enes Kanter, un giocatore turco – sodale di Fethullah Gülen e nemico dichiarato di Erdogan – nei confronti del quale Istanbul ha emesso un mandato di cattura per terrorismo. La lega prende spesso posizione contro la discriminazione delle minoranze, in particolare quella afroamericana.
Più in generale star, allenatori e giornalisti di settore si sono schierati sovente contro Trump, che dal canto suo attacca pubblicamente sia LeBron James che i fortissimi Golden State Warriors. Anche per questo motivo, i due giorni di intimorito silenzio dei nomi più noti del campionato e le scuse arrendevoli dei loro rappresentati, hanno colpito parecchio gli osservatori. Dove sono finiti tutti i combattenti per i diritti civili? Sono rimasti seppelliti sotto i miliardi di yuan e il dato di fatto che il mercato cinese è molto più grande di quello turco?
Tutto questo accadeva nello stesso periodo in cui Richard Stallman, scienziato del Mit e fondatore del “Movimento per il software libero” (le cui conseguenze positive per l’economia americana si stimano nell’ordine dei trilioni di dollari) veniva licenziato in tronco perché in una mailing list privata – parlando di Marvin Minksy, un suo ex collega coinvolto nell’affare Epstein e ora defunto – si era prodotto in una breve riflessione sul fatto che il termine “sexual assault” fa pensare immediatamente alla coercizione fisica e per riferirsi a del sesso con delle ragazze minorenni apparentemente consenzienti sarebbe invece il caso di utilizzare un’ espressione più precisa “per evitare ogni vaghezza morale attorno alla natura della critica”. Che sia o meno condivisibile, questa singola riflessione linguistica – Stallman non è accusato di alcun tipo di rapporto improprio o illegale – è finita per costargli il lavoro, oltre alla faccia visto che i media di mezza America lo hanno dipinto come un depravato determinato ad assolvere moralmente gli stupratori. Di eccessi in seguito al #metoo ce ne sono stati diversi ma il caso di un uomo – un idolo di settore per altro – licenziato per aver osato intraprendere una riflessione semantica rappresenta probabilmente un nuovo vertice negativo. Nell’ansia di non offendere nessuno s’ignora lo stato di diritto – condannando gli accusati alla morte civile ed economica – e si forza spesso ogni posizione entro schemi manichei che riducono il mondo a buoni e cattivi. Chi viene relegato arbitrariamente sul lato dei cattivi perde ogni diritto a un’opinione divergente. Diventa il male assoluto. Qualche inquietante somiglianza con la forma mentis del partito cinese salta all’occhio. Certo i due sistemi politici rimangono separate da differenze abissali, ma negli ultimi dieci anni la Cina è rimasta un Paese illiberale – semmai ha esteso la sua influenza censoria a livello internazionale – mentre gli Stati Uniti sono andati perdendo a colpi di safe-space, micro-aggressioni, politicamente corretto e crociate moraliste, una fetta importante del valore non negoziabile e condiviso della libertà di espressione. Durante questo processo sono finiti nelle maglie del repulisti anche degli autentici criminali e sono state condannate usanze del tutto deprecabili ma il prezzo che la società nel suo insieme sta pagando è alto. La storia del pensiero liberale insegna che il metodo prima o poi si rivela sostanza e sul lungo periodo finisce per contare più delle motivazioni sbandierate ai quattro venti. In altri termini, se si limitano la libertà d’espressione e le altre forme di garanzia che lo si faccia per un’idea che si ritiene buona, conta poco o nulla. Ogni movimento autoritario, vale la pena di ricordarlo, inizia sempre fregiandosi di buone intenzioni. Bret Easton Ellis nel suo ultimo, splendido, libro “Bianco” segnala una singolare somiglianza fra il pensiero dei guerrieri del politicamente corretto e la mentalità delle corporation, due forme di pensiero con alcune affinità elettive, entrambe si rivelano naturali antagoniste del dibattito e del pluralismo delle opinioni: per i militanti si tratta di imporre al mondo intero un verbo che ritengono assolutamente buono e indiscutibile, per le corporation si tratta proteggersi da ogni aggredibilità legale e mediatica tutelando così i propri bilanci. Sostenere posizioni di principio, come la difesa della libertà d’espressione, può avere un costo economico elevato, anche senza bisogno di scomodare le dittature di oriente. In un simile clima politico e culturale uno stato antidemocratico come la Cina si permette di sparigliare le carte e, con un colpo quasi situazionista, si mette a parlare seriamente di “offesa” ai suoi cittadini, facendo scattare il meccanismo pavloviano di terrore che ormai si annida in ogni occidentale timoroso di dio al solo sentir pronunciare quel sostantivo. Da questo timore diffuso, istintivo, e non solo dalle motivazioni di danni economici nasce probabilmente il momento d’impasse della Nba e dei suoi giocatori. Il grottesco è evidente e sta nel fatto che il primo a offendere i cittadini cinesi è in realtà proprio il regime antidemocratico che impedisce la loro autodeterminazione. Che uno stato autoritario possa dirsi “offeso” senza che il mondo democratico scoppi in una sonora risata collettiva è uno degli aspetti inquietanti del nostro tempo, oltre che il segno del potere di ricatto dell’enorme mercato interno cinese. Se il primo nemico di ogni liberalismo è lo strapotere dello stato, il secondo è l’esistenza di ricchezze enormi e di grandi squilibri, la cieca ricerca del profitto slegata da ogni impalcatura etica condivisa, per quanto minimale. Isaiah Berlin sosteneva che “la libertà totale per i lupi significa la morte per gli agnelli” e in modi, maniere e intensità diverse – per fortuna solo in minima parte sovrapponibili – oggi parte del sistema di regole che serve a proteggere gli agnelli, come il diritto a un giusto processo prima che venga comminata una eventuale condanna, o quello alla libertà di opinione anche quando questa finisce per offendere qualcun altro, sono sotto attacco dalla Cina come dall’America, dall’azione dello stato autoritario come da quella delle corporation impersonali. Come detto però ci sono ancora molte grandi, fondamentali, differenze. Alla fine l’Nba, spronata in maniera bi-partisan dalla politica americana, ha prodotto una seconda dichiarazione meno sottomessa ai voleri del partito comunista e soprattutto più difensiva nei confronti libertà di opinione. Donald Trump, il noto troll di Twitter che nel tempo libero svolge funzione di presidente degli Stati Uniti, non è intervenuto sulla questione parlando direttamente con le autorità cinesi delle condizioni di accesso al loro mercato, ribadendo l’inderogabilità della libertà di espressione e rinforzando così l’unità nazionale americana, ha preferito invece ridicolizzare i due coach simbolo della Nba, Steve Kerr e Greg Popovich, per quanto si sono dimostrati arrendevoli di fronte alle richieste cinesi, contrariamente a quando polemizzano con lui – il che per inciso è inopportuno, ma vero.
La storia naturalmente non finisce qui. L’Nba sembrava aver agguantato un pareggio in zona Cesarini, forse ricordandosi che ogni regime ha bisogno di pane, sì, ma anche di giochi, e 600 milioni di persone costrette a guardare il mediocre basket cinese al posto dell’Nba forniscono anche alla lega un certo potere di contrattazione, non solo al regime comunista. Subito dopo però allo stadio di Philadelphia è stato vietato a dei tifosi di esporre dei cartelli pro Hong Kong e in Giappone è stato impedito a una giornalista di fare una domanda a tema Cina ai giocatori dei Rockets in tour. Sulla vicenda non resta che aspettare il monologo di Dave Chappelle, il comico che assieme a Easton Ellis è l’ultimo vero alfiere pop della libertà di espressione americana, specie ora che, nell’episodio di South Park censurato, Winnie the Pooh è stato ucciso con un laccio attorno alla gola da un americano che voleva ottenere un lasciapassare per il mercato cinese.