foto LaPresse

Si dice nuoto, si legge Castagnetti

Roberto Perrone

Dieci anni fa moriva un grande dello sport italiano. Un ricordo inedito

“Andiamo a cena, da qui in poi la Carmen non è più divertente”. Una sera di fine estate all’Arena di Verona con la grande lirica e la versione, imponente e barocca, dell’opera di Georges Bizet firmata Franco Zeffirelli. L’ultima immagine che ho di Alberto Castagnetti, l’uomo che ha allenato tanti campioni ma soprattutto ha contribuito in modo determinante a ribaltare il destino fallimentare del nuoto italiano, è di un paio di ore dopo. Lui, con sua moglie Isabella vagamente innervosita per l’eterno Peter Pan che albergava in suo marito, che sgomma per corso di Porta Nuova su una Ferrari 612 Scaglietti. Poco più di un mese dopo, il 12 ottobre 2009, Alberto Castagnetti se ne andava. In mezzo, un’operazione al cuore che non si poteva definire di routine, perché nelle faccende di cuore nulla è scontato, ma che non era drammatica ed era stata programmata con largo anticipo. “Mi devono mettere solo una valvola, l’unico aspetto che non mi garba è stare nelle mani degli altri”. Alberto voleva essere sempre padrone della sua vita e quindi il concetto di convalescenza gli risultava ostico. Forse si è agitato troppo, forse qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro. Si è sentito male nella sua casa di Negrar, è morto verso sera, a 66 anni, dieci anni fa, con una fame di vita intatta e un grande avvenire davanti agli occhi.

 

Era il commissario tecnico del nuoto azzurro dal 1988. Ai Mondiali di Madrid, nel 1986, dov’era andato perché in quel periodo vendeva le “cordate”, cioè i divisori per le corsie, aveva notato, nella finale B dei 200 stile libero un giovanotto che gli era parso di sicure speranze. Era Giorgio Lamberti. Gli chiesero se poteva occuparsene. È stato uno dei suoi pupilli con Marcello Guarducci, Roberta Felotti, Roberto Gleria, Emiliano Brembilla, Domenico Fioravanti, Luca Marin, e naturalmente, Federica Pellegrini.

 

Amava i nuotatori di carattere, di qualsiasi tipo. Da quello schivo e tormentato del bresciano Lamberti, che portò alla medaglia d’oro (la prima della storia azzurra, 1991) e al record mondiale nei 200 stile libero, a quello scanzonato e irridente di Domenico Fioravanti, doppio oro olimpico a Sydney 2000 nei 100 e 200 rana; fino a quello aguzzo e potente di Federica Pellegrini, prima ricostruita dopo la crisi 2005-2006 che poteva cancellarla, poi condotta al successo, anche come nume tutelare dopo la sua morte. Ama i singoli. “Alla Corso”.

 

Nel 1997 a Siviglia, dopo i primi campionati (Europei) dove non facevamo da mattonelle in piscina spiegò il cambiamento: “Il reclutamento. Adesso, se c’è un talento a Taranto o a Gressoney, non ce lo facciamo sfuggire”. Il sistema nuoto funziona ancora con i suoi colleghi e amici.

 

Lo sport ce l’aveva nel sangue, l’ingegneria, che mollò dopo il biennio, no. Suo padre Mario era dirigente di un’azienda tedesca che produceva trattori. Avviò tutti i quattro figli allo sport, ne facevano anche due o tre a testa. Alberto cominciò con lo sci, giocava a calcio con Pierluigi Cera all’oratorio San Nazzaro di Verona, e andò all’Olimpiade di Monaco del 1972 nella staffetta 4x100 stile libero.

 

Era un uomo di passioni, un irrequieto. Lirica, auto, donne, fino a Isabella Sollazzi, danzatrice classica della Scala incontrata giù dal palco. Sposato due volte, dal primo matrimonio, con l’americana Patricia, aveva avuto Olivia e Linda mentre dal secondo erano nate Veronica, architetta, e Virginia che Alberto chiamava “l’artista”. Isabella è mancata nel 2016, la Federnuoto le aveva trovato un impiego al Centro federale di Verona, dove Alberto allenava i suoi campioni. Ma prima di lei, il grande amore, non si era fatto mancare nulla, perfino un flirt con una giovane americana, figlia di un ufficiale distaccato al comando Nato di Verona. Il suo nome era Sharon Tate, poi moglie di Roman Polanski e vittima della follia di Charles Manson. Me lo raccontò un giorno d’estate in un ristorante di pesce lungo l’Adige. In qualunque città del mondo, non saltava una visita al miglior negozio di dischi. Ne aveva 5.000, in vinile. Aveva un interesse particolare per i tenori. Il migliore, a suo avviso, era uno svedese. Il nome non chiedetemelo.

 

Era riservato, schivo, ma è cambiato negli anni con il nuoto azzurro. Mi confessò che l’avevo fatto infuriare per alcuni articoli su Giorgio Lamberti dopo i fallimenti olimpici del 1988-1992. Gli risposi che Lamberti aveva fatto infuriare me. Siamo diventati amici. Avevamo una tradizione, inaugurata a Sydney 2000: a ogni manifestazione, facevano una grande cena, o un grande pranzo, a seconda degli orari. Un collega protestò per questa frequentazione “personale”. “Invitami pure tu”, replicò Alberto. Ma la conoscenza dei ristoranti del tipo si fermava alla mensa.

  

I grandi eventi lo esaltavano. Una volta, in Nuova Zelanda, mollò la Nazionale per andare a vedere Luna Rossa. Una bigiata grandiosa. Era sempre pieno di progetti ma non di soldi, con i conti aveva rapporti idiosincratici. Negli anni Settanta aprì la prima piscina privata in Italia. Fu lui a importare dagli Usa il concetto di “scuola nuoto”. Non andò bene e ci rimise moltissimo. La sua ultima idea era quella di aprire un club di tennis. Era stato anche a Wimbledon a incontrare John Newcombe, con Cino Marchese, il grande manager scomparso quest’anno, come chaperon.

 

Era un gran raccontatore di barzellette, ma sul lavoro non scherzava. L’ultima sua grande impresa è rimasta sotto silenzio. Nel 2009 Luca Marin, allora fidanzato con Federica Pellegrini, si era messo in testa di fare l’attore. Voleva andare ad allenarsi negli Stati Uniti, a Los Angeles. Aveva conosciuto un nuotatore americano che studiava recitazione a Hollywood. La Divina, innamoratissima, era pronta a seguirlo. Castagnetti andò a parlare, durante i Mondiali di Roma, con il tecnico del club californiano che doveva ospitarli. Ne riportò una pessima impressione. Alberto, più che per Luca Marin, che almeno a livello internazionale, aveva imboccato la parabola discendente, temeva per Federica. Conosceva la sua incapacità di adattamento lontana da Verona. Aveva cominciato ad allenarla dopo l’esperienza milanese 2004-2005 che la stava per distruggere. Per cui disse ai due: “Non posso impedirvi di partire, ma quando tornate, presto o tardi, io non vi alleno più”. I due allora rinunciarono. Con la regia dell’allora (solo) presidente dell’Aniene, Giovanni Malagò, amico di Alberto e protettore di Federica, venne imbastita una piccola bugia mediatica: “Rinunciamo al viaggio per stare vicini ad Alberto in un momento delicato per lui, con l’intervento al cuore a cui si deve sottoporre”. Gran commozione popolare, servizio del Tg1, paginate sui giornali. Pure io mi accodai, anche se Alberto mi aveva raccontato la verità, pregandomi, però, di non scrivere nulla. Dopo dieci anni l’embargo è finito. Racconto, ora, la verità per un tributo a quest’uomo di sport e di vita che, con i suoi difetti e le sue fragilità, come tutti, ha lasciato una grande eredità allo sport italiano: la sua più grande atleta, Federica Pellegrini.

Di più su questi argomenti: