Non fate dei calciatori i paladini anti Erdogan
Il saluto militare dei giocatori turchi al termine di Francia-Turchia e l'errore di credere che ragazzi bravi a tirare calci a un pallone debbano fare politica
Chi era sugli spalti dello Stade de France di Saint-Denis non era davvero lì per gustarsi i dribbling tanto spettacolari quanto (ieri) inefficaci di Antoine Griezmann e neppure per le parate tanto antiestetiche quanto efficaci di Fehmi Mert Günok. Il cinismo pallonaro di Olivier Giroud è rimasto in secondo piano, così pure il risultato finale, quell’1-1 che non ha permesso a nessuna delle due squadre di avere la certezza della qualificazione agli Europei di calcio del prossimo anno. L'incontro tra Francia-Turchia di ieri sera, ottava giornata del gruppo H di qualificazione a Euro 2020 non era altro che un'attesa. Quella del gol della nazionale turca. Perché anche se ci fossero stati cinque gol in rovesciata, un assolo alla Maradona, un gol da trentacinque metri del portiere transalpino oppure un'invasione aliena, tutto sarebbe passato in secondo piano. Quello che lo spettatore allo stadio e da casa desiderava era soltanto un gol della Turchia, il desiderio di osservare l'esultanza dei giocatori turchi, la curiosità di vedere se quella mano portata alla tempia destra sarebbe stata riproposta ancora.
È arrivata all'ottantunesimo minuto di gioco, dopo che Kaan Ayhan ha deviato alle spalle del portiere della nazionale francese Steve Mandanda il pallone calciato da Hakan Çalhanoğlu.
È in quel momento che il compagno di reparto, Merih Demiral, ha dato seguito al saluto militare a sostegno delle forze armate turche impegnate nell’offensiva a nord della Siria esibito già venerdì scorso contro l’Albania. Un momento che la regia televisiva francese ha cercato di non riprendere. Un gesto che non è piaciuto all’autore del gol che si è limitato a esultare in modo tradizionale, prima di battibeccare con il calciatore della Juventus che gli intimava di professare vicinanza ai soldati.
#FranceTurquie
— Cengaver (@cengaverhaber) October 14, 2019
Tavukları pişirmişem Fransayıda sahaya gömmişem pic.twitter.com/UlmS5vs1zY
Ayhan gioca come centrale difensivo, di testa segna spesso, è nato e cresciuto a Gelsenkirchen in Germania da genitori turchi, gioca al Fortuna Düsseldorf in Bundesliga e in Turchia è andato pressoché soltanto per vestire la maglia della nazionale. Una dimensione comune ad altri calciatori della selezione diretta da Şenol Güneş. Come Hakan Çalhanoğlu, Cenk Tosun, Nazim Sangaré, Oğuzhan Özyakup (nato e cresciuto però in Olanda) o Kenan Karaman. Quest’ultimo, così proprio come Ayhan, si è sempre rifiutato di esprimere a gesti (o a parole) la propria vicinanza politica ai militari o alle scelte di Erdogan. Anzi si è sempre rifiutato a gesti (o a parole) qualsiasi identità politica: “Sono affari miei. Miei e di nessun altro. Sono un calciatore non un capopopolo”.
La pubblica esternazione gestuale di vicinanza alle scelte politiche del presidente turco non è qualcosa di condiviso all’interno di tutta la nazionale, tanto che a fine partita, solo sette dei nazionali hanno risposto dal campo ai circa 3.800 tifosi turchi che dagli spalti li salutavano militarmente, uno in meno di quelli che allo stesso modo avevano esultato qualche giorno prima per la vittoria contro l’Albania.
SUPRİSE, SUPRİSE MOTHERFUCKERS! #FranceTurquie pic.twitter.com/jCG2YUOSn8
— F E L İ P E (@felipereyiz) October 14, 2019
Un gesto, quello dei nazionali turchi, che, in un momento nel quale l’attenzione mediatica è posta sull’avanzata delle truppe di Erdogan in Siria con lo scopo di eliminare i curdi che hanno combattuto lo Stato islamico (e continuano a farlo), ha suscitato indignazione in gran parte del mondo del tifo calcistico. Un’indignazione che si è scagliata contro la Uefa, rea di non aver ancora minacciato la Turchia di spostare in altra sede la finale di Champions League che si disputerà allo stadio Olimpico Atatürk di Istanbul il 30 maggio 2020. Un’indignazione che è montata nei social sino a chiedere sempre all’Uefa di squalificare chi ha manifestato con il saluto militare e alle squadre europee che li hanno sotto contratto la loro immediata esclusione dalla rosa. Come fatto dalla squadra tedesca del St.Pauli che, dopo un tweet pro Erdogan e anti-curdi di Cenk Sahin, ha deciso di licenziare l’attaccante.
Quanto fatto dal St.Pauli però non può essere preso come esempio per il semplice fatto che la seconda squadra di Amburgo fa firmare un codice etico ai propri tesserati nel quale non chiede totale adesione ai propri principi (ossia l’antinazismo, il pacifismo e la lotta a ogni forma di discriminazione), ma la pubblica presa di distanza da eventi e opinioni che possano entrare in conflitto con la storia e i valori del club. La profonda identità culturale della società tedesca deriva dalla storia recente del quartiere dove è nata, contraddistintasi da un’adesione quasi totale a un universo sociale anarco-libertario. Un’identità culturale che quasi nessun’altra squadra ha al mondo né per principi, né tantomeno per statuto societario.
Chiedere un intervento alla Uefa o una squalifica (o addirittura la radiazione) dei calciatori che hanno esternato vicinanza ai militari turchi, per quanto capibile o addirittura condivisibile all’interno di un momento profondamente emozionale come questo, sarebbe però dannoso per il calcio mondiale. E non solo.
Perché se è vero che molte volte il calcio ha veicolato messaggi politici (positivi, negativi, pure dittatoriali), se è vero che grazie al calcio (e allo sport in generale) hanno acquisito rilevanza internazionale regimi antidemocratici e assassini, o movimenti di protesta, a volte anche violenta, non si può demandare al calcio (e allo sport in generale) decisioni che dovrebbe farsi carico la politica.
Come sottolineò Brian Clough, l’allenatore che portò il Nottingham Forest a vincere due volte la Coppa dei Campioni nel 1979 e nel 1980, dopo alcuni scontri tra hooligan avversari, “l’idea che le istituzioni del calcio debbano sostituirsi alla politica è folle, così come è folle che per esternare delle idee, condivisibili o incondivisibili che siano, qualche calciatore possa incorrere in squalifiche”. Per Clough “dare peso politico alle dichiarazioni di un atleta è il modo migliore per entrare in un cortocircuito che prima o poi può scoppiare e travolgere, distruggendo, tutto: lo sport e la politica”. La questione sollevata da Clough riguarda il limite entro il quale si muove lo sport. Che è soprattutto intrattenimento, nonostante molte volte possa prestare il fianco a un utilizzo strumentale di questo intrattenimento.
Un gioco che sì muove miliardi, che sì collega società democratiche e federazioni internazionali a gruppi economici non sempre trasparenti e molte volte legati a regimi od oligarchie, ma un intrattenimento resta. Pretendere che si prenda in carico decisioni politiche sarebbe una forzatura.
Perché chiedere la squalifica (o la radiazione) di un giocatore per un’esultanza a sfondo politico o la rescissione di un contratto per l’organizzazione di una finale di Champions League, non sarebbe nient’altro che una decisione politica. Non tocca al calcio farsi carico di ciò. Anche perché se ora ci si scaglia contro i giocatori turchi, un domani si potrà chiedere lo stesso per i giocatori catalani che protestano contro la condanna dei politici che hanno organizzato il referendum per l’indipendenza, oppure per i giocatori baschi che baschi si considerano rifiutando di vestire la maglia della Spagna. E cosa potrebbe accadere se un giocatore della nazionale brasiliana si schierasse con Bolsonaro o un inglese esultasse con la bandiera dell’Unione europea per criticare la Brexit? Qual è il limite che non può essere valicato o la manifestazione di appartenenza politica accettabile e quella no? Se, dopo aver annunciato l'apertura di un'inchiesta sull'esultanza dei calciatori, la Uefa si scostasse dalla solita prassi dell'ammenda pecuniaria contro chi ha portato all'interno degli stadi istante politiche esterne (com'era successo, almeno in Italia, a Paolo Di Canio per i saluti romani ai tempi della Lazio, a Cristiano Lucarelli per i pugni chiusi a Livorno e a diversi altri calciatori), si correrebbe il rischio che qualsiasi affermazione politica dei calciatori potrebbe essere usata contro club e atleti. Vogliamo davvero istituire un giudice (popolare?) che si metta a sindacare sulla bontà delle esternazioni di un atleta su un genocidio o su un'intervento militare?
Elevare ragazzi bravi a tirare calci a un pallone a interlocutori politici è più pericoloso che un saluto militare a favor di tifosi, darebbe voce e peso mediatico a uomini che non hanno tra le loro principali caratteristiche la capacità e le competenze di analisi per gestire e trovare soluzioni a situazioni complicati quali una guerra.
Molto meglio ricordare le parole di Paul Gascoigne quando dopo un derby contro il Celtic, in maglia dei Ranger Glasgow, rispose a un giornalista che gli chiese quale fosse la sua posizione politica sulla situazione irlandese: “La politica? Tra pub e campo non ho tempo da perdere”.