Più scienza, meno santoni. Perché non servono i motivatori guru
Non sempre ciò che crediamo impossibile lo è davvero. A volte ci creiamo degli alibi per non provare nemmeno a raggiungere uno scopo. Pietro Trabucchi in “Opus” spiega l'importanza dell'automotivazione
Quando il 24 luglio 2011, a poche centinaia di metri dall'Arc de triomphe, scese di bicicletta e si guardò attorno, sorrise. Era ancora tutto incerottato da testa ai piedi, ma sapeva che il peggio era passato. I trentatré punti di sutura che gli avevano cucito le decine di tagli alle gambe erano ormai un ricordo. Due settimane prima era finito in un fosso contro a una recinzione di filo spinato per evitare di andare addosso a Juan Antonio Flecha che era stato fatto cadere da una macchina della televisione francese. Si era rialzato che era ricoperto di sangue, s'era fatto medicare, aveva iniziato a pedalare verso Saint-Flour, arrivo della decima tappa. Ce ne erano altre dodici da percorrere, una maglia bianca coi pois rossi da difendere, quella riservata al miglior scalatore, c'era soprattutto un Tour de France da portare a termine. Nonostante il male fisico, il fastidio di pedalare con bende e suture, il prurito, gli avversari che non rallentano. Nonostante tutto.
Johnny Hoogerland aveva sopportato: quel Tour l'aveva finito. E quando gli chiesero come ci fosse riuscito, lui alzò le spalle, sbuffò contento: “Motivazione. Per fare le cose, qualunque cosa, ci vuole solo motivazione. La motivazione è il segreto. Rende possibile l'impossibile o meglio l'improbabile”. Il giornalista della tv francese gli chiese chi gliela avesse data la motivazione. L'olandese lo guardò stupito, quasi quella domanda fosse sciocca, del tutto fuori luogo, addirittura inutile: “Nessuno, te la devi trovate te”.
Per Johnny Hoogerland pedalare quasi duemila chilometri in due settimane non è mai stato un problema. Farlo pieno di botte e tagli è stato una questione di passione, di “motivazione intrinseca”, ossia “la capacità di attivarsi sulla base di una motivazione interna”, grazie cioè a qualcosa che “non ha bisogno di ricompense dall'esterno perché può contare su un premio interno: un forte piacere legato al compiere l'attività stessa”.
“La motivazione intrinseca è importante non tanto per fare ciò che ci piace fare, perché in questo siamo bravissimi tutti. Qualsiasi persona al mondo che trova una gratificazione immediata nel fare un'attività la fa senza problemi. Il problema è quando questa gratificazione immediata non c'è o non almeno in maniera costante. E questo accade sia nello sport sia, soprattutto, nella vita di tutti i giorni”, spiega Pietro Trabucchi, psicologo della squadra olimpica italiana di sci di fondo alle Olimpiadi di Torino 2006, per anni delle squadre nazionali di triathlon e della squadra olimpica di canottaggio e ora di quella di ultramaratona, nonché professore all'Università di Verona. Alla motivazione Trabucchi ha dedicato il suo ultimo libro: “Opus. Per raggiungere uno scopo la nostra risorsa più grande è l'automotivazione” (Corbaccio, 172 pp., 16 euro)
“La vita umana è contrassegnata da una serie di limiti, questo è evidente, quello che si può fare è negoziare questi limiti, spostarli avanti. Il vero problema è che a volte ce li creiamo. A volte abbiamo bisogno di costruirci una serie di alibi che ci proteggano dall'impegnarci a fare le cose”. Alibi che Trabucchi non si è mai costruito. Limiti che non ha mai trovato invalicabili. Non si concludono altrimenti quattro Tor des Geants – il trail valdostano di 330 chilometri e 24.000 metri di dislivello positivo da chiudere, correndo, entro le 150 ore –, e quattro Petite Trotte a Leon – trail di 320 chilometri e 24.000 metri di dislivello positivo su e giù per il Monte Bianco –, non si portano a termine altrimenti la Yukon Artic – l'ultramaratona più dura del mondo, dove si corre (in Canada) con temperature possono scendere a -50 gradi – o la Rock and Ice Ultra – gara a tappe di sei giorni nello Yellowknife, con una media di 50 chilometri da fare di corsa.
Limiti e alibi che diventano pratica e ricerca, perché, soprattutto in questo campo, quello della psicologia applicata allo sport, questi due aspetti vanno di pari passo, si supportano vicendevolmente. Pratica e ricerca per cercare di superare uno dei grandi dogmi dello sport degli ultimi decenni, quello della necessità di trovare un motivatore capace di spronare atleti e squadre, quasi fosse necessario affidarsi a un guru per riemergere da situazioni complicate. Un dogma che è in realtà un equivoco, “perché nato da una necessità che in realtà necessità non è: affidarsi e sentirsi dipendenti da qualcuno può anche creare sicurezza nel brevissimo periodo, ma non risolve alcun problema nel medio o lungo”, sottolinea Trabucchi. “Non mi piace il termine motivatore per questo, perché richiama a una dimensione che sta tra la magia e il sovraumano. Non è così. Non è nella manipolazione della mente che si riescono a superare i problemi, non è diventando la stampella di qualcuno che si può migliorare prestazioni e risultati. Molte volte il cosiddetto motivatore cerca di sostituirsi all'atleta imponendogli un modo di fare”. Ma tutto ciò è però un palliativo, “serve dialogo, comprensione, essere più un consulente che uno che dice cosa si deve o non si deve fare. Serve far in modo di far assumere decisioni, non imporle, far maturare le persone, renderle capaci di non aver bisogno di stimoli esterni”. Insomma: più scienza e meno santoni, perché “oggi si raccontano delle cose sulla motivazione che sembrano uscite da un romanzo di fantascienza, mentre invece è alla scienza che dobbiamo attingere. Oggi le neuroscienze hanno approfondito in maniera ampia il funzionamento celebrale in generale, ai comportamenti motivati in particolare, per cui oggi non ci sono più scuse, non possiamo affidarci alle credenze, ma dobbiamo lavorare sugli studi scientifici più recenti”.
Quello che ha fatto Trabucchi in “Opus”. “Ho cercato di riassumere e legare in un discorso più ampio tutte le ultime piccole e grandi scoperte scientifiche in materia di motivazione. Un po' per sgombrare il campo dai pregiudizi e dalle credenze che si sono accumulate negli anni”. Un po' un'opera divulgativa, soprattutto una buona lettura per capire quanti alibi ci creiamo nella nostra vita per non metterci in gioco, perché molte volte quello che crediamo impossibile, totalmente fuori dalla nostra portata in realtà non è così impossibile e così fuori dalla nostra portata. A volte basta un po' di motivazione. Lo sa bene Johnny Hoogerland, lo sanno bene quei tanti che si mettono davvero in gioco senza addurre scuse banali.
Il Foglio sportivo - In corpore sano