Al gabbio. Le prigioni parallele e militari di Moser e Panatta
La naja, due promesse dello sport che diventeranno campioni e quelle notti passate in “gattabuia”. Il ciclista e il tennista raccontano il loro Cpr
Francesco Moser, soldato, fu beccato mentre faceva l’autostop. “Avevo ottenuto una licenza per tornare a casa – dice al Foglio Sportivo – Da Roma a Trento e poi da Trento a Palù di Giovo. In treno, ci si metteva così tanto che, una volta arrivato, era già quasi tempo di dover tornare. E poi, lo giuro, quando finalmente ci davano la licenza, sull’orario ferroviario non erano più previsti, o erano rarissimi, i treni per il nord. Così, per potercela fare, ogni tanto cercavo, chiedevo, imploravo un passaggio in macchina. Quel giorno commisi un errore: feci l’autostop in divisa militare. Si pensava che la divisa fosse come un lasciapassare, che facilitasse l’operazione, che rassicurasse il guidatore, che semplificasse il viaggio. Infatti si fermò subito una macchina. C’era un uomo. Andava a Verona. Mi fece salire. Mi rivolse alcune domande. Poi mi disse se stavo scappando, o se andavo in fuga. Pensai che fosse una battuta di spirito, forse era proprio una battuta ciclistica, o forse no, c’era comunque qualcosa di strano. Quando volle conoscere le mie generalità, cominciai a capire che l’avevo fatta grossa. Eh sì. Perché quell’uomo distinto era un colonnello, in borghese. Avrei dovuto essere anch’io, in borghese. Sul momento tentai di architettare qualche scusa, di inventare qualche giustificazione, di trovare una difesa. Niente da fare: quel colonnello era intransigente. Mi accompagnò fino a Verona. Poi però mi denunciò alle autorità competenti”.
Adriano Panatta, soldato, fu beccato mentre scavalcava il muro per rientrare in caserma. “Invece di passare la notte in camerata – racconta al Foglio Sportivo – noi romani preferivamo tornare a casa, dormire nel proprio letto e poi, la mattina, presto, prima dell’alba, verso le cinque, senza farci vedere, alla chetichella, rientravamo, non dalla porta principale, ma saltando un muro di recinzione, e poi ci buttavamo in branda. Quel giorno non commisi alcun errore: stavo facendo quello che io, e gli altri romani come me, cinque o sei, facevamo sempre. Su e giù, al buio, in silenzio, senza fare rumore. Solo che, dall’altra parte del muro, stavolta eravamo attesi. E appena misi i piedi a terra, capii che non l’avrei passata liscia. E così fu”.
Moser e Panatta avevano, mese più mese meno, vent’anni. Tutti e due erano di stanza alla Cecchignola, la città militare di Roma lungo la Laurentina.
Moser: “Venni punito con dieci giorni di Cpr”. Panatta: “Venni punito con un certo numero di giorni di Cpr, ma non saprei dire esattamente quanti”.
Cpr significava Camera di Punizione di Rigore: secondo il regolamento di disciplina militare in vigore dal 1964 al 1978, i puniti di Cpr dovevano essere “rinchiusi in apposito locale”, perquisiti prima di entrarvi, sorvegliati da una guardia fissa, condotti all’aperto due volte al giorno (un’ora per volta) sotto sorveglianza. Insomma: prigione. Ma già a quel tempo, Moser era Moser, e Panatta era Panatta: due campioncini. E davanti a due campioncini, la legge non è più uguale per tutti.
Moser: “Feci il Car, cioè il Centro addestramento reclute, ad Avellino. Poi la società dilettantistica per la quale correvo, il Bottegone, a Bottegone vicino a Pistoia, riuscì a farmi trasferire nella Compagnia atleti, nella sezione ciclistica. Prima a Milano, poi a Roma, alla Cecchignola, che è lontana da Palù, ma molto meno da Bottegone. A Roma avevo il permesso di uscire e allenarmi, e spesso, nel fine settimana, andavo e tornavo da Pistoia per gareggiare”.
Panatta: “Feci il Car a Orvieto, poi entrai nella Compagnia atleti alla Cecchignola. A quel tempo abitavo all’Eur e mi allenavo al Tennis club Parioli. Per muovermi, avevo una Fiat 500. Di giorno mi allenavo, la sera tornavo, di notte evadevo, all’alba rientravo. Senza sensi di colpa, ma quasi con l’orgoglio della tradizione”.
Moser: “Quei dieci giorni di Cpr non furono la fine del mondo, però mi seccavano. Ma come, protestai, mettete dentro quello che ha vinto più di tutti, anzi, quello che ha vinto più di tutti voi messi insieme”.
Panatta: “Quei non so quanti giorni di Cpr li considerai un incidente, un’avventura, una bravata. Allora era tutto una scoperta, un gioco, un divertimento. A vent’anni va tutto bene, anche quello che non va bene”.
Moser: “Tutto bene? Mica tanto. Nella Compagnia atleti il Cpr non c’era, così bisognava andare in un’altra caserma, e il trasferimento era fatto su un camion, insomma era un impegno, un lavoro in più per tutti. Poi si dormiva in una cella. Il letto aveva una tavola di legno, su cui si stendeva il materasso. E a sorvegliarmi c’erano sempre le guardie. Le stuzzicavo: ‘Voi fate la guardia ché io intanto dormo”.
Panatta: “Infatti, bisognava andare in un’altra caserma. Il letto era duro. E ricordo che faceva freddo: forse perché non c’era il riscaldamento, forse perché le finestre avevano spifferi da cui entrava di tutto”.
Moser: “Ma era comunque un Cpr speciale, su misura, adattato. A norma di regolamento, sarei dovuto rimanere lì dentro, invece di giorno continuavo ad avere il permesso per uscire e allenarmi”.
Panatta: “Anch’io ero autorizzato a uscire e allenarmi. Insomma, fuori di giorno e dentro di notte”.
Rimane un dubbio: Moser e Panatta furono carcerati nello stesso periodo? Panatta è più possibilista di Moser.
Panatta, nato il 9 luglio 1950: “Il servizio militare lo si faceva a vent’anni, durava quindici mesi, i miei mesi di naja furono tra 1970 e 1971”.
Moser, nato il 19 giugno 1951: “Avevo chiesto l’anticipo del servizio militare, perché il 1972 era un anno olimpico. Così i miei mesi di naja furono tra 1971 e 1972”.
Trascorsi i giorni di Cpr, Moser e Panatta tornarono tranquillamente in caserma, quella della Compagnia atleti alla Cecchignola, a dormire, dormendoci anche su. La sorpresa, amara, si rivelò soltanto alla fine della leva militare, che a quel tempo era obbligatoria.
Moser: “I dieci giorni di Cpr me li ero ormai dimenticati quando a ricordarmeli furono i superiori. Mentre gli altri si guadagnavano l’agognato congedo illimitato provvisorio, io fui costretto a farmi in caserma altri dieci giorni, quei dieci giorni di Cpr, come una specie di tempi supplementari, perché non solo non me li avevano scontati, ma addirittura aggiunti. Mi sfogavo: quanto volete tenermi ancora con voi?”.
Panatta, nel 1970, esordì in Coppa Davis, debuttò a Wimbledon, conquistò i campionati assoluti battendo Nicola Pietrangeli al quinto set rimontando da 1-4; nel 1971, si guadagnò il primo titolo Atp e concesse il bis agli assoluti, ancora contro Pietrangeli, ancora al quinto set.
Moser, nel 1971, vinse due tappe a cronometro e fu maglia rosa finale al Giro d’Italia dilettanti, conquistò l’argento ai Giochi del Mediterraneo nella prova in linea e l’oro con il quartetto della cento chilometri alla preolimpica di Monaco; nel 1972, si laureò campione italiano dilettanti e all’Olimpiade fu ottavo in linea e nono nella cronosquadre.
Panatta e Moser, Moser e Panatta: erano nate due stelle. Sui campi, sulle strade. E in una cella.