Ve lo ricordate il Milan?
La cura Pioli non fa effetto e regna la confusione. Dopo la sconfitta con la Roma i rossoneri devono guardarsi più dalle parti basse della classifica che dall'obiettivo Europa League
Cinque sconfitte in nove giornate, tre punti di vantaggio sulla zona salvezza e, nel prossimo turno infrasettimanale, uno scontro diretto con la Spal capace di fermare sul pareggio il Napoli. Questo prima di un trittico che proporrà, l'una dopo l'altra, Lazio, Juventus e Napoli. Non è facile essere tifosi del Milan oggi, come non è facile essere giocatori o dirigenti del Milan oggi. Non lo è perché si parla di una società, innanzitutto, che ha rappresentato la rivoluzione nel mondo del calcio, insegnando al pallone italiano come si potesse vincere andando oltre il semplice concetto di difesa e contropiede. Era il Milan di Silvio Berlusconi, era il Milan che imponeva il proprio gioco agli avversari, sempre e ovunque, come avrebbero fatto in seguito le grandi d'Europa. Era il Milan che inventava e difendeva allenatori, come Arrigo Sacchi, pescato dal Parma in B, o Fabio Capello, portato direttamente in panchina dalla polisportiva Fininvest. Era il Milan che incarnava un'idea e la perseguiva fino in fondo, difendendola. Vero che Berlusconi, posto di fronte all'alternativa tra Marco Van Basten e Sacchi, scelse il primo. Ma è anche vero che fu lui a porre i giocatori di fronte alle proprie responsabilità, proteggendo il tecnico di Fusignano dopo i primi tempi in cui nulla sembrava girare. E la storia potè avere inizio.
Ventotto trofei dopo, di quel Milan non c'è più traccia. Meglio. C'è ancora nei volti di chi comanda oggi in casa rossonera, non nelle azioni. Elliott, il fondo che ha in mano il club, ha affidato le decisioni operative a Paolo Maldini e Zvonimir Boban, dopo aver fatto fuori Leonardo in pochi mesi. Due ex grandi del Milan, che oggi si guardano intorno smarriti. Maldini aveva visto il modo in cui Berlusconi aveva difeso il progetto Sacchi, e non ha avuto la forza di fare lo stesso con Marco Giampaolo, da lui scelto. A Boban hanno ritagliato un ruolo alla Beppe Marotta, per occuparsi della politica sportiva insieme con il direttore sportivo Frederic Massara: non è stato in grado di ingaggiare il trequartista chiesto dall'allenatore, nonostante i soldi ci fossero, come dimostrato dalla campagna acquisti estiva.
Un'estate che era cominciata con la rinuncia all'Europa League, per trovare una mediazione con l'Uefa sulla questione del fair play finanziario, e che era proseguita con l'annuncio di voler costruire una squadra che puntasse sul talento e sulla gioventù. La strategia che, non per nulla, aveva consigliato a Rino Gattuso di congedarsi senza rimpianto alcuno. Il progetto era stato accettato da Giampaolo e costruito su una serie di arrivi in rossonero che avevano sollevato più di una perplessità: ben oltre l'abbigliamento originale con cui Ismal Bennacer si era presentato alle visite mediche. Un gruppo costruito con lacune, facendo passare per giocatori di talento elementi che devono ancora dimostrare di possederlo. Giampaolo ci ha messo del suo, con scelte di formazione senza spiegazione: Borini e Castillejo, titolari al debutto a Udine, sono ancora una domanda senza risposta, mentre Calhanoglu e Piatek titolari a Genova hanno segnato la parola fine.
L'ex tecnico della Sampdoria è saltato dopo nove punti in sette giornate. Da due c'è Stefano Pioli, che di punti ne ha raccolti uno: pareggio in casa nel finale con il Lecce e sconfitta domenica in trasferta con la Roma. Una partita in cui, dei giocatori acquistati in estate, solo Hernandez e Leao erano in campo. Maldini e Boban accusavano Giampaolo di non utilizzare i nuovi giocatori. All'Olimpico, Bennacer, Duarte, Krunic e Rebic erano in panchina, con buona pace di tutti. Una confusione a tutti i livelli, esemplificata dal modo in cui la Roma ha vinto la partita, sfruttando un banale errore in impostazione da parte di Calabria. E sublimata dal modo in cui è stato rinnegato il progetto di rifondazione sbandierato in estate, ancora più velocemente di quanto avesse fatto l'apostolo Pietro, non ancora santo, prima che il gallo cantasse due volte. Eppure in società c'era chi avrebbe potuto spiegare qualcosa, visto che l'attuale amministratore delegato Ivan Gazidis lo era stato dal 2009 al 2018 all'Arsenal. Nella società in cui Arsène Wenger aveva potuto lavorare per ventidue anni (non i tre mesi di Giampaolo), vincendo titoli e plasmando giovani. Ma forse era distratto dai conti, quelli di cui si occupa in prima persona. Quelli che hanno fatto registrare un passivo da 146 milioni un paio di settimane fa, con un peggioramento di 20 rispetto alla gestione dell'indimenticabile Li Yonghong. Gazidis se l'è presa, quando glielo hanno fatto notare. “Abbiamo salvato il Milan dall'insolvenza e dalla serie D”, ha sottolineato piccato alla presentazione di Pioli. Dovrebbe cominciare a tenere d'occhio la serie B, piuttosto: oggi è molto più vicina della tanto vagheggiata Europa.
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