C'è qualcosa che non Var
Doveva risolvere molti problemi, continua a farci discutere come prima e non dirà mai tutta la verità
Quando mi chiedono se sono a favore o contro l’uso del Var non ho mai dubbi: sono sempre a favore quando annulla i gol della squadra avversaria e sempre contro quando annulla quelli della mia. A due anni dalla sua introduzione possiamo forse cominciare a fare qualche considerazione non astratta sull’uso della tecnologia sui campi di calcio.
Il Var ha intanto cambiato la fenomenologia, il modo di essere di pubblico e calciatori, a proposito del fatto che i mezzi tecnici non sono solo applicazioni ma decidono anche il messaggio, la forma in cui comunichiamo e, in questo caso, persino il fisico. I giocatori, per esempio, hanno imparato a modificare il comportamento dei loro corpi: saltano in aria o a terra portando le braccia dietro la schiena con tale perizia da sembrare manichini con le braccia mozzate. Sia i calciatori sia i tifosi hanno scoperto nuovi tipi di sentimento: abbiamo scoperto l’esultanza condizionale (esulto ma non troppo perché poi magari il Var l’annulla), l’esultanza doppia (esulto-pausa Var-riesulto), l’esultanza frustrata (esulto-pausa Var- mi rammarico) e tutte le versioni contrarie di rammarico. Il meglio è ovviamente il rammarico condizional-speranzoso: sì, abbiamo preso un gol ma spero che glielo annullino per qualcosa di invisibile a occhio nudo. Se poi volevamo sconfiggere le discussioni inutili, abbiamo qui fatto grandi scoperte sul metodo: abbiamo imparato che per litigare non erano necessarie le decisioni dell’arbitro sulle azioni dei giocatori come avevamo sempre pensato. Possiamo litigare benissimo discutendo le decisioni dell’arbitro su se stesso, sull’andare a vedere il Var o meno. Tra le modificazioni rientra pure il sapere che le partite durano ormai tra i 94 e i 100 minuti e che, se uno è a casa, la pausa Var permette comunque di andare in bagno, fumare una sigaretta, bere un cocktail anche durante la partita.
E fin qui, la modificazione dei costumi. Il cambiamento più importante però riguarda la conoscenza. Ci sentiamo garantiti dal Var perché così ci sono “i dati”, quelli evidenti e inattaccabili. Dopo due anni, questo sogno che sa di antico positivismo scientista si è offuscato, se non infranto. Il mitico “dato” richiede ancora un’interpretazione umana. Il Var non sa giudicare l’intensità di una spinta, non ha gradazioni sulla quantità di centimetri di braccio che fanno la differenza tra volontario e involontario, non capisce mai quanto un’azione dipenda dallo sviluppo precedente. In Fiorentina-Lazio della penultima giornata di campionato i laziali segnano alla fine di un’azione cominciata a metà campo con un fallo non rilevato dall’arbitro. I giocatori della Fiorentina chiedono di rivedere l’azione al Var perché reputano decisivo quell’inizio. Giusto? Sbagliato? Quand’è che è cominciata l’azione? Il gioco del calcio è continuo e sintetico, mentre il Var è uno strumento discreto e analitico. Sono due modi di conoscenza dell’uomo molto distanti tra loro. Far applicare il secondo a un arbitro che fa parte del gioco, e che deve decidere in esso, è un metodo ottimo se si vogliono fare delle statistiche, pessimo se si vuole aiutare il gioco. Lo sanno anche i supremi decisori del calcio, che infatti continuano a inserire regole e regolette, sempre più microscopiche, per cercare di afferrare l’inafferrabile dato continuo nell’immagine discreta. Vado allo stadio a vedere Juventus-Bologna: il difensore bianconero scivola in area all’ultimo minuto, sfiora la palla con il piede e ne blocca la traiettoria con la mano, prima che la sfera finisca davanti al calciatore del Bologna. Mano e rigore! No, l’arbitro non va neanche a vedere il Var. Avendo parenti che tifano Bologna mi arrabbio e guardo sui social, dove ovviamente non si parla d’altro. Qualche dotto spiega che l’arbitro, secondo le ultime regole, ha perfettamente ragione: se la palla colpisce prima il corpo e poi la mano non è rigore. La regola era stata spiegata una settimana prima a un raduno di arbitri. Dunque, avevano ragione l’arbitro e il dotto. Ma era proprio quello il caso a cui la regola pensava? La verità è che per una realtà continua le regole, che sono discrete, sono sempre troppo larghe o troppo strette.
Infine, c’è la grande questione sulla natura della realtà. Sono i nostri strumenti che non riescono a coglierla tutta o è la realtà stessa che non è mai totalmente determinabile e quindi “vaga”? “Vago” si dice in molti modi, ma tutti comprendono una complessità e una ricchezza della realtà troppo difficile da spiegare analiticamente, pezzettino per pezzettino. Alle volte, dietro la vaghezza trinceriamo argomenti scomodi e complessi. “Stai a fa’ er vago..”, si dice a Roma in questo caso. Ma altre volte siamo vaghi non perché non vogliamo ma perché non riusciamo a esprimere tutti i motivi di un’azione, come accade per le risposte vaghe dei figli adolescenti. Persino chi fa ricerca ad alto livello sa che i dati, per quanto microscopicamente, differiscono spesso tra di loro e che per lo più otteniamo uniformità statistiche. Heisenberg aveva dimostrato già nella prima metà del secolo scorso un principio di indeterminazione che fa capire quanto la profondità microscopica della realtà non sia del tutto determinabile.
Insomma, la vaghezza è un elemento della realtà e ci sono ora matematiche e logiche che la studiano perché un po’ di vaghezza rimane sempre. Per fortuna! È in questa vaghezza che affondiamo quando cerchiamo le idee originali, quando dobbiamo cambiare schema – di gioco o di vita – quando dobbiamo valutare qualcosa immedesimandoci in qualcuno o quando dobbiamo accettare dei paradossi. È la realtà che è vaga e non c’è sistema elettronico che la coglierà tutta: saperlo ci renderebbe forse più consapevoli dell’umana piccolezza e fallibilità di fronte a una realtà infinita, nonché un po’ più ironici sul gioco del calcio, ripetendo sornionamente con il grande Vujadin Boskov che “rigore è quando arbitro fischia”.