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Hamilton-Schumacher, a un passo dal tie-break

Fabio Tavelli

L’inglese ha Hollywood nel mirino ma prima ha ancora una missione, non impossibile, da compiere. Agganciare a sette il tedesco nel 2020. E poi superarlo

Siamo a un passo dal 7-6, un tie-break ancora aperto per chi insegue. Michael Schumacher (7) e Lewis Hamilton (6). Così lontani e così vicini. L’inglese ha Hollywood nel mirino ma prima ha ancora una missione, non impossibile, da compiere. Agganciare a sette il tedesco nel 2020 e poi provare nel primo anno con le nuove regole a mettere la freccia e chiudere a otto per godersi grano e popolarità, non necessariamente nell’ordine. Siccome le carriere dei due verranno pesate e scannerizzate a dovere per un bel po’ è forse opportuno mettere in tavola l’asso di briscola di quelli che pensano che Schumi non sia paragonabile. Ed è questo: Lewis Hamilton è stato battuto da un suo compagno di squadra (Rosberg 2016). Neo che non c’è nella carriera del Kaiser, il quale nell’unica volta in cui ha chiuso la stagione dietro al compagno di squadra (con Irvine in Ferrari, le due stagioni in Mercedes quando è rientrato appartengono ai contenuti speciali di un dvd che però nessuno vuole aprire dopo il film) dovette rinunciare a sette gare (sei per infortunio più quella dell’incidente a Silverstone 1999). Ci sarà tempo per ricordare che Michael uno come Rosberg, non un fenomeno ma certamente superiore a Barrichello, Irvine e Massa, non l’avrebbe voluto nel team (anche se il destino glielo mise poi accanto quando decise di rientrare 40enne in F1 con i grigi).

 

Ecco, due cose forse però le possiamo dire con certezza.

 

La prima è che su entrambi graverà sempre l’ombra di una superiorità tecnologica schiacciante della vettura che avevano in mano. Magari non sempre esercitata in pieno, ma sufficiente a garantir loro un vantaggio competitivo evidente. Che poi è il destino di tutti i “cannibali”. Senna era già fortissimo sulla Lotus ma per vincere i Mondiali dovette passare alla McLaren, che sul finale degli anni Ottanta era quel che la Mercedes è oggi, o quel che la Ferrari è stata dal 2000 al 2004.

 

La seconda è che LH potrà sempre snocciolare l’elenco dei campioni del mondo che ha battuto (Alonso, Button, Raikkonen e Vettel, con il quale era partito 1-4 e in èra ibrida ha ribaltato con un tennistico 6-4) e considerarlo migliore del trio Hill, Villeneuve e Hakkinen messo in fila dal tedesco. Il sesto titolo LH lo ha messo in ghiaccio nei primi 8 Gran Premi della stagione. Quelli delle “quasi tutte doppiette”, quando il numero 44 grigio ha sentito l’inno inglese sei volte su otto, finendo secondo quando era Bottas a stringere la mano per ultimo sul podio. Nei successivi dieci le vittorie sono state “solo” quattro ma quando su 18 gare in 13 arrivi o primo (dieci) o secondo (tre), beh, per perdere il Mondiale deve succedere qualcosa di imprevedibile. Poi, certo, se quello che ti sta più vicino è Bottas allora puoi ragionevolmente anche occuparti un po’ d’altro. Senza esagerare però.

 

Hamilton tiene molto a farci sapere i dettagli della sua vita pubblica, che è fatta di molte cose diverse dal simulatore e dagli weekend di gara. E qualcuno che non accetta di vivere in questi anni fatti soprattutto di fuffa da dare in pasto ai guardoni eccepisce che i suoi non sempre morigerati comportamenti ne rappresentino un limite. Ho il sospetto, invece, che sia l’esatto opposto. Ovvero che LH abbia un bisogno quasi fisico di immergersi in altro per arrivare poi “hammer time” quando si abbassa la visiera.

 

Un pensiero, infine, agli ingegneri che comunicano con lui durante la gara. Lewis in lombardo sarebbe un “piangina”, un lamento costante che non nasconde però il timore di non farcela. Mal cela invece la sua tensione verso la perfezione, obiettivo al quale va spesso molto vicino.

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