Questo non è un titolo razzista
L’ossessione per la Champions di Guardiola e le parole sante di Allegri sull’intelligenza artificiale
A forza di ripetere un concetto, tutti prima o poi ci credono. Gli italiani si cono convinti di essere un paese razzista: glielo spiegano quotidianamente i giornali, i twittaroli compulsivi, la tv, inducendo in tutti un enorme senso di colpa (quasi sempre ingiustificato) per cui cominciano a vedere razzismo ovunque, e ovviamente a denunciarlo per non fare la figura di quelli che non si accorgono dell’allarme democratico. A quel punto è una gara a chi si dissocia di più e meglio, a chi trova la punizione più sadica per il razzista di turno, a chi offende in modo più colorito il reo. So di che parlo, in Inghilterra ci siamo già passati, la repressione non serve a nulla, il randello del “razzista!” usato come arma politica per attaccare avversari che razzisti non sono non risolverà mai il problema (che c’è). In attesa che qualcuno si accorga che esiste un genere musicale che si chiama black music e per questo gridi alla discriminazione, io per quel che vale mi tengo il titolo di giovedì del Corriere dello Sport, ammetto che non era giornalisticamente dei migliori (come se fossero belli quelli in prima pagina della Gazzetta e di Repubblica) e ordino una birra al pub chiedendomi fino a quando potrò chiamarla ancora così, in un mondo in cui sempre più cose non possono più essere chiamate con il loro nome. Anzi, mentre monta l’indignazione per la mancata e discriminante convocazione nella Nazionale australiana femminile di pallamano di Callum Hannah Mouncey, fino a tre anni fa uomo e oggi donna, ne ordino due.
Grazie a Dio morirò prima di vedere la Premier League mista, intanto mi godo il derby di Manchester di questo weekend e brindo alla stagione fin qui stupenda del mio Sheffield United (tra l’altro, che bellezza lo speciale di Paolo Di Canio andato in onda su Sky Sport sul calcio nella mia città: gli ho voluto bene anche se lui è un ex Wednesday). Il Liverpool vola e se resiste così fino a gennaio potremo dire in perfetto giornalese che il campionato potrà perderlo solo la squadra di Klopp. Guardiola lo aveva detto qualche settimana fa: vinte due Premier con il City, adesso la sua ossessione è la Champions League, che personalmente non conquista dai tempi in cui il Milan era una squadra forte, una vita fa. Se non dovesse farcela potrebbe salutare l’Inghilterra e volare altrove, difficile che faccia come Massimiliano Allegri, in un anno talmente sabbatico da avere rifiutato la panchina dell’Arsenal.
Poiché ho ancora una pinta sottomano, brindo anche a Max, che al Corriere della Sera ha detto cose sagge soprattutto su un grande equivoco del calcio moderno: “Non esiste l’intelligenza artificiale, conta l’occhio del tecnico. Da gennaio metteranno i tablet a disposizione della panchina. Saprai quali sono i percorsi di campo più frequentati. Per fare cosa? Per riassumere in una frase quello che ho già visto. Il calcio è un campo, non un universo. Le cose si trovano, si toccano, non importa essere troppo elettronici”. Qui tifiamo imprevisto, colpo di genio, talento, culo, grinta. L’intelligenza artificiale è roba per sommelier, noi siamo per il bicchiere pieno e la curva ubriaca.