Il disadattato della Perestrojka
Sasha Zavarov e l’epopea triste dei calciatori sovietici in Europa, da eroi di Stato a comprimari falliti
Pubblichiamo oggi la prima di quattro puntate firmate dallo scrittore Enrico Brizzi che ripercorrono la diaspora dei giocatori sovietici ai tempi della Perestrojka, quando l’occidente sembrava facile terra di conquista per giocatori considerati fenomeni in patria. Il racconto segue soprattutto le vicende di Aleksandr “Sasha” Zavarov, arrivato alla Juventus per sostituire Platini e ricordato come il peggior numero 10 della storia bianconera.
N. B. Esistono diversi princìpi, tutti accettabili, per la traslitterazione dei nomi russi e ucraini. Brizzi si è attenuto a quella più gettonata per ciascun nome nelle fonti italiane dell’epoca (dal russo all’italiano).
I tifosi della Juventus sono più divertenti degli altri. Basta nominare al loro cospetto alcuni personaggi, infatti, per vederli prodursi in un ventaglio d’espressioni facciali improntate alla riprovazione e al raccapriccio, maschere degne della migliore commedia all’italiana. Se volete fare un esperimento estremo che comprovi questa teoria, sceglietene uno di almeno quarant’anni che conoscete bene, avvicinatevi a lui senza tradire le vostre intenzioni, e provate a nominargli all’improvviso Alexander “Sasha” Zavarov. Lo vedrete sbiancare, poi assumere un’aria desolata, quindi vi guarderà come l’aveste pugnalato a tradimento, riportandogli alla memoria l’eroe eponimo di un’epoca cupissima e imbarazzante, il principe dei bidoni, il disastro fatto uomo, il peggiore numero 10 della Vecchia signora a memoria di tifoso. Il maelstrom dell’angoscia, lì per lì, risucchierà il vostro amico lasciandolo senza parole, condannato alla mimica d’un Gassman o d’un Manfredi mortificati in ciò che sentono di più sacro; appena si sveglierà da quell’incubo che vede la Juventus condannata a tornei opachi, chiusi a distanza siderale dallo Scudetto, però, tornerà padrone dei propri nervi e della favella, e potrà sillabare corrucciato qualcosa come: “E pensare che l’avevamo preso per farne il nuovo Michel Platini”. Poi, se è uno juventino di buon cuore, lascerà andare un sospiro e riconoscerà: “In teoria era anche forte. Il fatto è che arrivava dritto dall’Unione sovietica, poverino”.
Zavarov, tra i compagni di squadra Bruno (a sinistra) e Bonetti (a destra), festeggia la vittoria della Juventus nella Coppa UEFA 1989-1990 (foto tratta da Wikipedia)
Correva l’anno 1988, quello delle Olimpiadi di Seul, di I need you tonight degli INXS e dell’affermazione planetaria dei Guns ‘n’ roses, e il mondo stava cambiando a una velocità inebriante e spaventosa. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, scricchiolava il paradigma della divisione del mondo in due blocchi, e l’incubo permanente della guerra nucleare si scioglieva nella stretta di mano e nei sorrisi distesi che Ronald Reagan, ormai al termine del suo secondo mandato, aveva appena rivolto all’uomo nuovo di Mosca, Mikhail Gorbaciov. Grazie a quel dirigente tanto illuminato quanto coraggioso alla guida dell’Unione sovietica, finalmente si poteva tirare tutti un sospiro di sollievo. Sembrava che all’improvviso potessero accadere solo cose buone e stupefacenti: presto i regimi-satellite dell’Europa orientale sarebbero caduti uno dopo l’altro in un domino virtuoso, l’espressione “Cortina di ferro” sarebbe uscita dai quotidiani per entrare nei libri di Storia, e noialtri ragazzi d’occidente avremmo potuto finalmente fare la conoscenza dei nostri coetanei ungheresi e polacchi, bulgari e rumeni, cecoslovacchi e tedesco-orientali, e persino di quelli cresciuti nel paese-guida del socialismo reale.
Illustrazione di Ugo Nespolo
Il primo a presentarsi da noi
Il problema per i tifosi della Juventus fu che il primo a presentarsi dalle nostre parti fu proprio lui, Sasha Zavarov. E dire che le sue credenziali erano più che solide: il biondo “Zar di Luhansk”, uomo di taglia ridotta e scatto felino, era il più quotato alfiere della temibile Dinamo Kiev guidata dal Colonnello Lobanovsky, un club al cui nome era spesso appaiata la definizione di “squadra-laboratorio”. Il Colonnello la guidava da un quindicennio con visionario rigore: da una parte sottoponeva i giocatori a estenuanti allenamenti atletici mutuati – si diceva – da quelli delle Forze speciali, dall’altro era stato il primo ad applicare la tecnologia informatica alla tattica, studiando al computer schemi forgiati ad hoc sulle caratteristiche dei singoli giocatori. Il risultato era un “calcio totale” di nuova concezione, un gioco fisico e condotto a memoria in cui spesso saltavano i ruoli ma i ribaltamenti di fronte avvenivano a velocità spaventosa, gli inserimenti risultavano efficacissimi, e i passaggi alla cieca trovavano sempre qualcuno pronto a raccoglierli. Zavarov di quel collettivo era l’inesauribile ispiratore, lo stempiato piccoletto Igor Belanov e il glorioso veterano Oleg Blochin – l’unico dei tre che, se avvistato in costume da bagno, poteva essere individuato con buona certezza come un atleta – l’elegante e implacabile finalizzatore. Tutti e tre giocavano in Nazionale, sempre agli ordini di Lobanovsky. Tutti e tre tentarono, appena fu possibile, l’avventura in Occidente. E tutti e tre fallirono in maniera a tal punto clamorosa da farli apparire, a distanza di tempo, più vittime che colpevoli, capri espiatori d’un passaggio.
Tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni sono più uguali di altri. Le parole che George Orwell, appassionato difensore del socialismo democratico, impiegò nella sua Fattoria degli animali per mettere alla berlina la mostruosa deriva dell’utopia sovietica, ben si attagliano a descrivere il destino di calciatori, dirigenti e club sportivi attivi nell’URSS.
La sottomissione del comune cittadino ai burocrati di Partito, infatti, non aveva risparmiato neppure i futbolisty, a cominciare dai pionieri attivi negli anni di Lenin, giù giù fino agli assi che settant’anni dopo la Rivoluzione d’ottobre, in piena Perestrojka, poterono lasciare il paese per tentare l’avventura in Occidente. Come Sasha Zavarov che, con buona pace di chi ne ricorda solo l’irritante caracollare sulla trequarti e l’implacabile sterilità realizzativa, un asso lo era stato davvero. Il guaio era che lo era stato su un altro pianeta. La Grande madre Russia aveva fatto la conoscenza del football in epoca zarista. A insegnare i rudimenti del “meraviglioso giuoco” erano stati uomini avvezzi ai viaggi: gli equipaggi delle navi battenti bandiera britannica che facevano scalo nei porti del Baltico e del Mar Nero, e un pugno d’avventurosi imprenditori, anch’essi sudditi della Regina Vittoria, che avevano ottenuto concessioni per impiantare fabbriche nella regione moscovita. Lo sviluppo calcistico era stato invero timido: alle Olimpiadi del 1912 la giovane nazionale russa aveva rimediato un’imbarazzante sconfitta contro la Finlandia, all’epoca un granducato ancora incluso nell’Impero dei Romanov, quindi aveva toccato il fondo subendo un’umiliante 16-0 dalla Germania. La Rivoluzione d’ottobre e la conseguente stagione di guerra civile fra Rossi e Bianchi avevano cancellato le consuetudini e i divertimenti cui la borghesia russa s’era abituata; di futbol s’era ricominciato a parlare negli anni della NEP, la nuova politica economica voluta da Lenin a partire dal 1921.
Football di Partito
Il nuovo decennio, caratterizzato dalla convivenza fra le istanze di collettivizzazione e una relativa tolleranza nei confronti dell’iniziativa privata, sarebbe stato ricordato nei circoli più eterodossi di Mosca come l’Età del jazz sovietico. Le tendenze generali della società si riflettevano, naturalmente, anche sul rinascente movimento calcistico: nacquero in quegli anni i club patrocinati direttamente dallo stato, come i Biancocelesti della Dinamo Mosca, legati al ministero dell’Interno, e la squadra dell’Armata Rossa, il CDKA, ma la temperie di relativa tolleranza consentì anche il sorgere di club d’altra natura, su tutti quello animato da Ivan Armemjev e dai fratelli Starostin, figli di un ex guardiacaccia dello Zar e appassionati frequentatori di caffè letterari dove s’esprimevano opinioni eretiche rispetto alla linea del Partito. Il nuovo club, sorto come espressione del vivace quartiere moscovita di Krasnoprensky, dovette barcamenarsi fra mille difficoltà, cercando il patrocinio ora d’una fabbrica e ora d’un sindacato, ma riuscì a imporsi sotto il nome di Spartak Mosca come l’autentica squadra del popolo. Se il calcio a livello di club conobbe una grande fioritura, le cose andarono molto diversamente per la Nazionale. A livello ufficiale, infatti, non esisteva neppure una selezione pan-sovietica, e gli unici incontri internazionali disputati videro la fantasmatica Nazionale dell’URSS misurarsi dapprima con i dilettanti scandinavi e poi contro uno sparring partner fisso particolarmente gradito al regime: la Turchia rivoluzionaria di Atatürk. Sarebbero serviti decenni prima che gli atleti in casacca rossa ornata dalla sigla CCCP prendessero parte a sfide ufficiali contro le “Nazionali borghesi”.
Troppi dribbling, purgato
Sotto Stalin, ogni spazio di dissenso venne perimetrato, preso d’assedio e annichilito. Le terribili purghe orchestrate da Berija ebbero fra le proprie vittime anche i calciatori più amati del paese, a cominciare dal popolarissimo Nikolai Starostin. Il portabandiera dello Spartak, secondo la leggenda, avrebbe pagato l’ardire di antichi dribbling ai danni dello stesso Berija, appassionato calciatore durante la gioventù trascorsa in Georgia; certo è che al processo gli rinfacciarono discorsi e comportamenti indegni d’un atleta sovietico nel corso di una breve tournée disputata a Parigi. Di conseguenza venne condannato alla deportazione insieme ai suoi fratelli, e neppure l’intervento di Vassili, il figlio di Stalin, deciso a ingaggiarlo per la nascente squadra dell’Aviazione militare, lo salvò da lunghi anni d’esilio. La sofferta vittoria nella “Grande guerra di liberazione” si tradusse in uno sfrenato culto della personalità del dittatore: solo la morte del terribile “compagno Acciaio” e la caduta in disgrazia di Berija, nel 1953, consentirono la liberazione di un gran numero di condannati al confino, fra i quali i fratelli Starostin, che tornarono a Mosca da trionfatori, con Nikolai acclamato presidente a vita dello Spartak. Il nome di Stalin venne rimosso dall’inno nazionale, Nikita Kruscev prese il suo posto alla guida del Partito, ma contrariarne i vertici restò sommamente pericoloso anche per i calciatori più popolari.
Esemplare, in questo senso, la storia di Eduard Streltsov. A metà anni Cinquanta, il diciottenne Eduard, titolare di un'iconoclasta chioma bionda acconciata alla maniera dei teddy boys, gioca attaccante nella Torpedo Mosca, la squadra legata all’industria automobilistica ZIL, e si mette in luce vincendo il titolo di capocannoniere in Klass A, la massima serie dell’epoca. Il tabù che ha impedito per decenni gli incontri internazionali è parzialmente caduto: se pure non si cimenta nei Mondiali, l’URSS ha preso parte alle Olimpiadi del ’52 rimediando una sconfitta in finale contro i “socialisti eretici” della Jugoslavia, uno smacco che buona parte della squadra ha pagato uscendo dal giro della la Sbornaja, ovvero la selezione pansovietica. In vista dei Giochi di Melbourne del 1956, a Mosca si reclama una medaglia d’oro; il prolifico e ancora giovanissimo Streltsov è scelto fra i titolari e fa la sua parte alla grande, raddrizzando una semifinale ormai compromessa contro la Bulgaria: con la squadra sotto per 1-0 ai supplementari, prima pareggia e poi serve al compagno Tatusin il pallone della vittoria. Nonostante l’exploit gli negano la gioia della finale, che l’URSS si aggiudica contro la solita Jugoslavia, e persino la medaglia d’oro, prevista solo per i titolari in campo nei novanta minuti decisivi. Eduard non si scompone: ha tutta la carriera davanti, e avrà modo di vincere altri trofei. Lo reclamano tanto la Dinamo Mosca quanto il CSKA, ma lui si prende il lusso di negarsi tanto ai “poliziotti” quanto ai “soldati”: sta bene alla Torpedo, che trascina a suon di gol a un clamoroso secondo posto in campionato, e finché continua a segnare nessuno può negargli il posto in Nazionale. Il suo sogno è quello di partecipare da protagonista ai Mondiali svedesi del 1958, i primi ai quali la Sbornaja accetta di iscriversi. Aiuta la selezione nelle qualificazioni contro Finlandia e Polonia, così che il traguardo sembra a un passo. A questo punto, però, commette un clamoroso passo falso. A una cena ufficiale, avvicinato da Ekaterina Furtseva, l’unica donna membro del Politburo, fra il serio e il faceto gli propone di sposare sua figlia Svetlana. Eduard ha bevuto qualche bicchiere di troppo, e invece di declinare con classe l’offerta si lascia sfuggire a voce alta un’offesa sanguinosa: la signorina somiglierebbe troppo a una scimmia per poter aspirare a diventare sua moglie. Sposa un’altra ragazza, Alla, ma non passano molti mesi prima che si ritrovi a fronteggiare una fumosa accusa di violenza sessuale; gli promettono che se si dichiarerà colpevole otterrà la grazia e sarà libero di giocare ai Mondiali ormai imminenti; accetta il patto, ma quell’ammissione di colpa si traduce in una condanna al gulag. Con la libertà perde la moglie – Alla ottiene un divorzio-lampo – e la salute: prima viene massacrato di botte da un compagno di prigionia e costretto per quattro mesi in un letto d’ospedale, poi è costretto a lavorare a stretto contatto con materiali radioattivi senza le adeguate protezioni. Senza di lui l’URSS fallisce miseramente ai Mondiali, ma si rifà due anni più tardi aggiudicandosi il primo Europeo per nazioni. L’incubo di Streltsov ha termine nel 1963, lo stesso anno in cui il portiere della Nazionale, il “Ragno nero” Lev Jascin, si vede riconoscere il Pallone d’oro, il primo mai vinto da un atleta sovietico e l’unico – a oggi – mai assegnato a un portiere.
Si va in Europa
Quando Eduard viene rilasciato, la vaporosa chioma da teddy boy ha lasciato il posto a un pietoso riporto, e il suo fisico è profondamente minato. A ventisei anni ne dimostra il doppio, ma la sua classe cristallina dimora intatta. Di lì a poco Breznev prende il posto di Kruscev, ed Eduard viene riabilitato: si leva lo sfizio di tornare alla Torpedo, che guida alla vittoria in campionato nel ’65 e della Kubok SSSR tre anni più tardi; riguadagna la Nazionale e vince per tre volte di fila il titolo di miglior calciatore dell’URSS. È un bilancio di tutto riguardo per la coda d’una carriera che sembrava irrimediabilmente compromessa, ma anche l’indizio della fama planetaria che Streltsov si sarebbe potuto conquistare senza la terribile pausa forzata che gli ha portato via gli anni migliori e che l’avrebbe condannato a una morte prematura per un cancro alla gola. Negli stessi anni in cui Eduard tornava al calcio e Jascin difendeva le porte della Dinamo Mosca e della Nazionale, circondato da un’aura leggendaria per avere rivoluzionato in maniera permanente lo stile e le prerogative dei “numeri 1”, le squadre di club sovietiche scesero nell’agone europeo: aprì le danze la Dinamo Kiev nel 1965-66 in Coppa delle Coppe, e l’anno successivo fu proprio la Torpedo di Eduard a rappresentare per la prima volta l’URSS in Coppa dei Campioni. Sarebbe servite parecchie stagioni di rodaggio, tuttavia, perché una squadra sovietica sollevasse al cielo una coppa, e non sarebbe stata una squadra moscovita, ma la Dinamo ucraina. La “squadra-laboratorio” del Colonnello Lobanovsky cominciò la sua parabola vincente nel 1974, aggiudicandosi tanto il titolo nazionale quanto la Kubok SSSR. La sua fama dilagò ben oltre i confini sovietici l’anno successivo, quando si fece strada in Coppa delle Coppe e sconfisse in finale i compagni ungheresi del Ferencvaros. Con quella vittoria la Dinamo Kiev divenne il primo club sovietico a vincere un trofeo continentale, ma il vero trionfo arrivò nella doppia sfida che metteva in palio la Supercoppa. In quell’occasione gli Ucraini si trovarono di fronte il Bayern Monaco dei freschi campioni del mondo Franz Beckenbauer e Gerd Müller, squadra-faro della decadente e capitalista Germania Ovest. Kaiser Franz e i suoi amici andarono incontro a una dura lezione: la Dinamo li sconfisse all’andata in Baviera, per affondarli definitivamente davanti a oltre 100.000 spettatori nel match di ritorno al Central’nyj stadion di Kiev grazie a una doppietta dell’incontenibile mancino Oleg Blochin, figlio di un’ex campionessa d’atletica e d’un reduce dell’assedio di Leningrado, che s’era messo in luce sin da giovanissimo alle Spartachiadi dell’URSS. In virtù del suo apporto alla causa del calcio socialista, Blochin venne premiato col titolo di Meritevole maestro dello sport, un’onorificenza ambitissima, in grado di cambiare per sempre la vita d’un atleta; all’estero, tuttavia, si rimarcò soprattutto la sua premiazione con il Pallone d’oro, secondo sovietico a dodici anni di distanza da Lev Jascin.
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