Roma. In principio fu la palla. Ma a quadri, non a spicchi. “Era un giorno di inizio aprile quando suonò il citofono. Scesi, aprii la porta e mi ritrovai davanti un gigante nero che mi chiedeva se potevo ridargli il pallone. Notai solo dopo la richiesta la presenza di un bambino con l’espressione mogia e triste mezzo nascosto dietro le gambe di quell’energumeno”. Carmine Sticci conobbe Kobe Bryant quel giorno di inizio aprile del 1987, al di là di una ringhiera di un giardino appena fuori dal centro di Reggio Calabria dietro alle gambe “lunghissime di Joe”. Sono passati oltre trent’anni, “trent’anni durante i quali io sono diventato vecchio e lui un campione. Però qualche volta ci sentivamo lo stesso. Mi mandava i video di saluti e altre diavolerie tecnologiche. Quando ho letto che era morto non ci volevo credere. È stato un pugno all’altezza dello stomaco. Non riuscivo a parlare, non mi veniva il respiro. Ho più di ottant’anni era lui che doveva sapere della mia morte, non io della sua”.
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