il foglio sportivo - girodiruota
La bici come Caronte. Il mondo scoperto pedalando nel silenzio
Omar Di Felice doveva essere in Mongolia per essere il primo ad attraversare in inverno il deserto del Gobi. Un automobilista l’ha buttato a terra: “Ora basta”
È tutto un gioco di luce e movimento, di ombre che scorrono, macchie scure che si muovono sull’asfalto e che mai potrai raggiungere se il sole le spinge alle tue spalle. È tutta una questione di ritmo, di trovare il giro giusto, nelle pedalate, nel respiro, nel tic toc della catena, come una musica. Anche se in fondo l’unica musica che si ricerca è il suono del silenzio. “Perché è questo che adoro dell’andare in bicicletta: il silenzio, la solitudine. Pedalando riesco a trovare un posto nel mondo proprio estraniandomi dal mondo. E poco importa se questo sembra assurdo. Non lo è. Viviamo in una quotidianità fatta di colori, di rumori, di interazioni sociali e virtuali. Anche quando siamo soli siamo connessi a una rete fatta di parole, immagini e suoni. E davvero soli non siamo mai. La bicicletta riesce a distogliermi da tutto questo, riesce a donarmi una dimensione tutta mia”, racconta al Foglio Omar Di Felice, romano, ultracyclist, esploratore a pedali del mondo e della resistenza umana.
Foto 6Stili (per gentile concessione di Omar Di Felice)
La sua prossima dimensione sarà grande quanto il deserto del Gobi. Duemila chilometri in solitaria, la Mongolia attraversata da est a ovest, da Ulan Bator fino al villaggio di Altai passando per Saynshand. E nel periodo più freddo dell’anno. “Perché il bello di ciò che sembra impossibile è realizzarlo”.
A sostenere l’impossibilità di una traversata del deserto del Gobi in inverno fu Reinhold Messner nel 2004. A Repubblica dichiarò: “Ho affrontato il cammino nell'unico periodo possibile, la primavera, tra maggio e giugno”. Omar Di Felice, “con rispetto, sia chiaro”, ha deciso di sfidare questa convinzione. “So che sarà dura, ma non mi spavento. Questa zona è attraversata solo da alcune piste e in alcuni punti difficilmente individuabili, in quanto poco battute. Capirò di giorno in giorno quanta distanza riuscirò a coprire, sarò in balia del meteo come in tutte le avventure che ho affrontato”. In inverno l’ultratleta romano ha già attraversato la Lapponia, l’Alaska, l’Islanda, il Canada. Ha poi pedalato da costa a costa l’America, tutta la catena pirenaica da sud a nord, l’Italia da Genova alla Sardegna passando per l’Alto Adige e la Sicilia. Non è certo il freddo, la distanza o la fatica a spaventarlo.
D'altra parte la bicicletta ha la capacità di dare la giusta dimensione alle cose. Quando ci si siede su di una sella e si inizia a pedalare tutto assume un’altra prospettiva. Le gambe si muovono al ritmo del percorso, seguono piani, salite e discese. È un adattarsi continuo a ciò che ci circonda, al vento che ti arriva in faccia, a quello che la strada offre. Ci si riscopre piccoli e in questa piccolezza si scopre che anche i problemi si ridimensionano: nulla sembra impossibile, tutto diviene affrontabile, basta cambiare rapporto, alleggerire la pedalata, rallentare il passo. “Ci si trova in una microdimensione, ma che si può estendere all’infinito, può abbracciare il mondo intero. La bicicletta è stata per la maggior parte di noi il primo mezzo che abbiamo utilizzato per velocizzare i nostri spostamenti. E ogni volta che si pedala il bimbo che è in noi si palesa di nuovo”, dice Di Felice. Da piccoli non avevamo paura di niente, non percepivamo limiti. La bici era Caronte, ci faceva varcare il fiume di ciò che conoscevamo a perfezione per portarci su di una riva nuova, inesplorata, dove tutto era scoperta. Uscire dal recinto della famiglia, oltrepassare la via di casa e allontanarci per strade non ancora battute è la prima forma di esplorazione che abbiamo provato. “È anche grazie alla bicicletta che ho scoperto ciò che mi stava attorno. Non ho ancora smesso. Quelle due ruote che scorrono sono per me il lasciapassare per nuovi panorami, nuovi odori, nuove avventure. Sono una cosa meravigliosa”, continua Di Felice.
Un qualcosa di meraviglioso di cui non si può fare a meno, che ti spinge a non abbatterti qualsiasi cosa accada. A rialzarti sempre e comunque. Anche quando una macchina ti fa cadere e tutti i progetti fatti sembrano compromessi. Omar Di Felice avrebbe dovuto essere già in Mongolia. Doveva iniziare la sua avventura venerdì 14 febbraio alle otto (ora locale). Non c’era miglior occasione, San Valentino, per iniziare a fare ciò che si ama di più. Non è andata così. Tutto è stato rinviato a data da destinarsi. “Sabato scorso avevo deciso di fare l’ultima sgambata prima di partire. Avrei dovuto prendere l’aereo lunedì, ma quel volo non l’ho preso. Appena fuori da Santa Marinella (litorale laziale, ndr) un'auto mi ha sorpassato. Era ben lontana da lasciarmi quel metro e mezzo di distanza di cui spesso sentiamo parlare. Mi ha colpito prima la mano con lo specchietto, poi ha finito il lavoro tagliandomi la strada. Mi sono ritrovato a terra, il casco rotto, abrasioni e botte ovunque”, racconta. Trauma cranico, una costola con sospetta frattura, venti giorni di prognosi. Mongolia rimandata. “Devo fare fisioterapia e aspettare che il tempo sistemi i dolori. Intanto pedalo sui rulli e aspetto il momento buono per partire. Perché l’idea di attraversare il deserto del Gobi non l’ho abbandonata. Se tutto va bene la devo rimandare soltanto di due settimane, in tempo per essere il primo a completare la traversata in inverno”.
Una caduta è qualcosa che un atleta che percorre più di quarantamila chilometri in un anno deve mettere in conto, va accettata. È la dinamica ad essere invece inaccettabile. “Perché avevo una maglia gialla, quindi visibile, avevo il radar di Garmin che avvertiva me dell’arrivo di auto da dietro e gli automobilisti della mia presenza lampeggiando. E poi stavo correndo al margine destro della strada. E sono stato comunque gettato a terra come una cartaccia. I presenti mi hanno detto che chi era alla guida si era distratto guardando il mare. Tutto ciò non può più accadere. Non se ne può più di automobilisti che non fanno ciò che devono fare, ossia guardare la strada. Non se ne può più di sentirsi dire ‘non ti ho visto’, o ‘eh ma voi stavate sulla strada’. Cosa vuol dire? Dove devono stare i ciclisti? Dobbiamo smetterla di considerare le strade come un luogo a uso esclusivo delle macchine e pensare che tutto ciò che non si muove a motore come un intralcio. Continuare così vuol dire protrarre un sopruso verso chi decide di prendersi la libertà di pedalare”, conclude Di Felice.