il foglio sportivo
È iniziato uno dei campionati più poveri d'Europa, quello irlandese
Strutture misere, squadre scarse, fallimenti in serie e giovani forti che se ne vanno in Inghilterra. Ma anche l’amore di tifosi unici che hanno salvato i club del proprio cuore
“Gente e comunità, la linfa vitale dei Rovers”. La clip dura due minuti scarsi, ma riassume l’attaccamento che dalle parti di Sligo, 20mila abitanti nel nord-ovest dell’Irlanda, la città nutre nei confronti della sua squadra. Il club è piccolo, ha quasi un secolo di storia e un passato recente più o meno glorioso, con qualche titolo nazionale e successive qualificazioni alle coppe europee, regolarmente concluse troppo presto. Poca roba, ma vive di questo il calcio, qui in Irlanda, terra che con il soccer (si usa la parola americana perché dalle parti di Dublino il football è solo il calcio gaelico) ha sempre avuto un rapporto strano. Sport britannico per eccellenza, non di rado malvisto perché “garrison game” (“gioco delle guarnigioni”, ovviamente quelle di Sua Maestà), ma giocato e stragiocato ovunque, tanto da essere ora lo sport più popolare del Paese. Si ama, ovviamente, la Nazionale, si segue con attenzione la Premier League, la Championship e pure il campionato scozzese. Meno, invece, il campionato locale, tra i pochi in Europa a prendere il via a febbraio: 10 squadre con una media cumulativa di 15mila tifosi a weekend, davvero un pubblico povero, che alimenta un sistema che vive, più che di grandi investitori internazionali, sul sudore, il tempo e il portafoglio delle comunità. Con storie uniche.
Non è un caso se lo Sligo Rovers ogni anno raccoglie fondi dai suoi tifosi per quasi 450mila euro, senza contare le entrate da biglietti e merchandaising. “I bacini da cui le squadre attingono tifosi sono generalmente piccoli, ma in queste zone sono davvero popolari”, spiega al Foglio Sportivo Emmet Malone, giornalista dell’Irish Times. “Ci sono però ostacoli per portare persone alle gare, in Irlanda le strutture sono misere. La gente parla all’infinito degli stadi municipali, che esistono in paesi come l’Italia, ma ci sono stati problemi con la loro costruzione qui”. A ciò si aggiunge una strana regola, la Rule 42 della Gaelic Athletic Association (GAA), ente che amministra gli sport gaelici: proibiva di giocare (e perfino di assistere) a football o hurling a chi aveva giocato partite di sport “stranieri”, tra cui ovviamente il soccer. “Molta gente ha sempre ignorato questa regola, non gli interessava nulla essere esclusi (specie nelle città, dove gli inglesi avevano le maggiori caserme), mentre altri tenevano nascosto il loro tesseramento. Molti giocatori di sport gaelici hanno anche giocato nel campionato di calcio, o in leghe minori, sotto falso nome”. A ciò si è aggiunta la tv: dagli anni Settanta ha importato il meglio del calcio inglese che si giocava al sabato, con programmi che venivano trasmessi alla domenica pomeriggio, proprio quando il campionato locale scendeva in campo. “Ciò ha portato in fretta a una crisi di pubblico, da cui la Lega non si è mai ripresa”. La situazione si è fatta ancora più complessa lo scorso anno, quando la Football Association of Ireland si è trovata in piena crisi finanziaria. Pareva un marchio sicuro e sostenuto da risultati sportivi soddisfacenti, finché alcune inchieste del Sunday Times non hanno portato alle dimissioni del Ceo John Delaney, scoperchiando un vaso di Pandora fatto di malagestione, spese pazze e debiti. Si parla di cifre altissime: a dicembre, sono stati rivisti i bilanci dei tre anni precedenti, e il conto è in passivo di almeno 55 milioni di euro. Uefa e governo irlandese hanno ancora aperta la trattativa su come fronteggiare la crisi, più di un osservatore vede in dubbio il futuro del massimo ordine calcistico irlandese, e nel frattempo anche nel pallone si è diffusa una parola che circa dieci anni fa era pane quotidiano, su ben altri sfondi, dei giornali di Dublino: austerity. Per questo la palla, ora, è nelle mani dei tifosi, delle comunità e della loro passione. Con una particolarità: nel piccolo campionato irlandese molte squadre vivono un rapporto speciale coi loro supporter, entrati nei club con quote e ruoli. Come ad esempio i Bohemians, una delle numerose squadre di Dublino: sono nati come club per la middle class protestante della capitale, hanno vissuto di amatorialità a lungo (anche medici e avvocati hanno vestito la maglia rossonera dei Bohs) e sono tornati a una struttura basata sulle membership dopo alcune disavventure finanziarie. “In tutta Europa, i club stanno voltando le spalle alla proprietà privata per riformarsi in organismi collettivi, basati sull’affiliazione, al fine di custodire la sicurezza e la prosperità futura del loro club nelle mani di coloro che più ci tengono, i tifosi”, si legge sul sito del club, che propone membership da 1 euro al giorno, con prezzi di favore per famiglie, studenti e anziani.
Per la prima di campionato, sabato 15 febbraio, c’erano 3.500 tifosi a Dalymount Park, che hanno sfidato la tempesta Dennis (vento e pioggia erano talmente forti che è stata pure annullata la diretta tv) per assistere al derby dei derby, quello contro lo Shamrock Rovers, anima del sud cittadino che si contrappone ai Bohs, ben radicati nell’area nord di Phibsboro. Dal fango sono emersi vittoriosi i biancoverdi. “Anche loro sono un caso interessante”, spiega Malone. “Negli anni Ottanta i proprietari del club di allora vendettero il loro campo, il Glenmalure Park, in circostanze molto controverse e lo Shamrock rimase senza casa per 25 anni. I tifosi hanno salvato il club e dopo una lunga saga in cui la società non è riuscita a trovare i soldi per costruire un nuovo stadio nella loro attuale area di Tallaght (sud-est di Dublino), l’autorità locale ha ripreso in mano il progetto e ne ha fatto un tale successo che altri Council hanno visto che questo modello può funzionare per il bene della comunità”. Dal 2016 è entrato in società un tifoso storico, Ray Wilson, che ha voluto rilevare metà delle quote, smezzandole così con il resto dei supporter. “Ciò è accaduto solo l’anno scorso e quindi dobbiamo ancora vedere cosa accadrà, ma il club sta crescendo e ha la migliore academy del paese, anche se va detto che qui molte squadre hanno un vivaio piuttosto misero”. D’altronde le società della League of Ireland pensano anzitutto alle prime linee, poiché gran parte dei giovani migliori lasciano il paese già in età adolescenziale, per andare in club inglesi o scozzesi. “I club irlandesi fondamentalmente schierano i giocatori che non sono abbastanza bravi da andare all’estero, oppure quelli che tornano”. L’intervento dei tifosi per la salute del proprio club non manca anche lontano da Dublino. A Cork, sud del paese, il City è ora in mano al FORAS (Front of the Rebel Army Society), parola che in gaelico significa anche “sviluppo”. “Il club ha vissuto un periodo terribile 10 anni fa, quando era di proprietà prima di una società inglese di Venture Capital che non aveva idea che fosse impossibile avere significativi ricavi dalla gestione di un club irlandese”, dice ancora Malone. Nel 2010 il club è andato in liquidazione, la federazione ha prima negato l’iscrizione al campionato alla compagnia proprietaria del Cork, per concedere poi al FORAS di accedere al campionato.
Anche a Derry – e qui siamo in Ulster – il City è sempre stato legato a filo doppio con la sua comunità, incarnando orgoglio e ferite della città. Il suo stadio, il Brandywell, si trova nel Bogside, caldissimo quartiere cattolico e repubblicano, e fino agli anni Settanta il club ha giocato nel campionato nordirlandese. Le trasferte qui, però, erano ostiche per le tifoserie di fede unionista, tanto che il Derry City fu costretto dalla Federazione a giocare le gare casalinghe a Coleraine, 50 km più a est. Nel ’72 la misura era colma, poiché sempre meno tifosi del Derry riuscivano a seguire il loro club: la società decise così di sfilarsi dal campionato nord-irlandese. Sarebbe ricomparsa solo nell’85, dall’altra parte del confine, iscrivendosi alla League of Ireland, di cui solo quattro anni dopo divenne campione. Nel 2000 si scontrò con debiti e fallimento, ma anche qui furono i tifosi a imporsi, salvando il club.
La crisi della FAI pone ,quindi, un grande punto di domanda sul futuro di storie come queste. Ma da qualche mese circola una proposta concreta di creare un campionato di calcio unico per Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. A sostenere il progetto, ideato dall’imprenditore Kieran Lucid, sono prevalentemente i club, mentre la Federazione di Belfast non è d’accordo, nascondendosi dietro alla buona salute del loro campionato. “Io penso sia una grande idea, ma ogni giorno che passa temo che non prenderà mai forma”, spiega Malone, che vede dietro al progetto l’ambizione giusta per rilanciare il calcio da entrambi i lati del confine. “Il loro campionato è molto simile al nostro, con strutture misere e pochi soldi”. Mettersi insieme gioverebbe a tutti, alzando l’asticella dei match. Il progetto rischia di fallire certo per ragioni economiche, ma pure politiche: “Parlare di una lega unica risveglia anche i dibattiti sull’opportunità di avere un’unica Nazionale, e ci sarebbe opposizione anche a questo. È terribile, e arriva in un momento particolarmente difficile, con la Brexit che si è aggiunta a divisioni già profonde”.