Una scena di Ben Hur, film del 1959 diretto da William Wyler con protagonista Charlton Heston

Il foglio sportivo

Olimpia non basta. Alla radice dello sport c'è il Circo Massimo

Moris Gasparri

Oltre duemila anni di eventi sportivi. Lo sport moderno non sarebbe lo stesso senza il circo romano. Storia di un modello sconosciuto

Qual è la radice antica dello sport contemporaneo? Olimpia con i suoi Giochi e i suoi vincitori, la risposta immediata. La grecità a cui siamo debitori, anche in senso linguistico, dell’agonismo, degli atleti, delle palestre, delle grandi competizioni rituali. È la verità, ma non tutta la verità. C’è infatti un’altra radice dello sport contemporaneo, altrettanto fondamentale e poco o nulla conosciuta, che trova la sua espressione principale nei circhi romani dell’età classica. Di più: nonostante l’apparenza lasci suggerire il contrario, il vero grande archetipo dello sport contemporaneo non è il recinto sacro di Olimpia, bensì il Circo Massimo. Per capire perché è necessario uno sguardo all’indietro. Accostare il mondo dello sport a quello del circo evoca un senso iniziale di straniamento. Nonostante anche l’arte circense viva nei suoi protagonisti di sacrificio, ripetizione ed esibizione spettacolare, troppo diversi sono nella percezione moderna senso e destinazione delle rispettive pratiche. Il circo è per noi acrobazia, giocosità, burla, non contesa. Lo sport invece è il potere effimero della vittoria, o meglio della lotta fisica per ottenerla (perché gli atleti solamente “de vez en cuando triunfan”, secondo le parole di un grande filosofo dello sport contemporaneo come Marcelo Bielsa), e competere per vincere è un’occupazione troppo seria per poter essere accostata alle giocolerie di clown e acrobati. Il circo nel senso romano del termine, quello da cui Giovenale trasse la celebre massima denigratoria del “panem et circenses”, significava però tutt’altro. La sua attrazione principale consisteva nelle corse di cavalli (quattro) aggiogati a dei carri (le quadrighe appunto, guidate da piloti-fantini chiamati agitatores), che venivano organizzate inserite come momenti conclusivi delle varie feste religiose direttamente organizzate dallo Stato.
  

Illustrazione di Massimiliano di Lauro per il Foglio Sportivo (tutti i diritti riservati)


 

Partenza allineata che avveniva da appositi box detti carceres, un tratto di accompagnamento e poi sette giri da compiere per stabilire il vincitore, lungo un percorso composto da due rettilinei divisi in senso longitudinale da una barriera, con due punti attorno ai quali girare (con forte rischio di collisioni), le metae. Se questa descrizione suona fredda e poco evocativa, un giovanissimo e non ancora famoso assistente alla regia di nome Sergio Leone pensò bene di rimediare nel 1959, filmando i dieci memorabili minuti della corsa che trovate in Ben Hur.

 

È però lo spazio architettonico che prende forma attorno a queste corse dei carri, il Circo Massimo appunto, a rappresentare il grande lascito latino alla storia dell’agonismo sportivo. Romana non l’invenzione delle corsa equestre in sé, derivata dagli etruschi, che a loro volta avevano attinto dalla cultura greca (già in Omero troviamo le corse con le bighe). Romano invece il farsi integralmente ed essenzialmente spettacolo dello sport, il suo diventare divertimento per grandi masse popolari. Si dà contesa sportiva perché la lotta per vincere anima non solo chi contende sul campo, ma soprattutto chi segue e guarda (spettacolo nel suo significato etimologico vuol dire appunto guardare). Senza incantamento degli spettatori, tanto maggiore quanto più incerti sono gli esiti della gara, l’insieme di pratiche che oggi intendiamo con la parola sport non avrebbe alcun senso. Qual è il grande mito fondativo del Circo Massimo, nonché della stessa civiltà romana? I giochi equestri in onore del dio Conso fatti istituire da Romolo per tendere il leggendario tranello ai Sabini. Tito Livio ci descrive quest’ultimi completamente assorbiti nell’attesa della partenza delle corse dei carri, talmente attratti da distogliere ogni attenzione sull’imboscata in atto per rapire le loro donne, congegnata dai romani per assicurare un futuro di sopravvivenza demografica alla neonata città. È così che nella spianata tra l’Aventino e il Palatino nasce il primo vero grande edificio dello spettacolo sportivo di ogni tempo, che lungo 1.000 anni di storia (l’ultima corsa si disputerà nel 549), soprattutto grazie agli interventi voluti da Cesare, Augusto e Traiano, assumerà la forma monumentale che oggi ammiriamo nelle ricostruzioni, capace di contenere 150 mila spettatori e di rappresentare la grande progenitrice dei nostri stadi. Il Circo Massimo era talmente pensato in funzione degli spettatori che al suo interno, per segnalare i giri compiuti dai carri e quelli mancanti, verranno addirittura creati gli antesignani degli odierni tabelloni luminosi, con uova e delfini in pietra a prendere il posto delle cifre numeriche.

  

Lastra con corda di quadrighe nel Circo Massimo di Roma, II-III sec


  

Difficile rievocare oggi questa grandezza passata percorrendo la spianata deserta capace di comparire nel discorso pubblico solo grazie alle polemiche sulla spazzatura generata in occasioni di concerti estivi, o nei ricordi di celebri festeggiamenti calcistici. Un diverso destino dell’archeologia forma la nostra visione, come ricorda nel suo libro monumentale pubblicato nel 1986 John Humphrey, l’archeologo a cui dobbiamo la grande mappatura dei circhi romani. Il Circo Massimo è “massimo” anche nella sua impossibilità di essere scavato per intero, la sua estensione lo impedisce per ragioni pratiche e finanziarie. È stata la sua stessa grandezza a seppellirne quasi interamente le tracce, mentre il Colosseo si è salvato anche e soprattutto per le sue dimensioni ridotte. Proprio questa sopravvivenza ci porta oggi ingenuamente a credere che quelli gladiatorii fossero gli spettacoli sportivi principali per i romani, ma non era affatto così. Il Colosseo è costruzione ben più tardiva del Circo Massimo, non sorgeva come quest’ultimo nel cuore della città, e il numero annuale di spettacoli ospitato era nettamente inferiore.

 

Ci sono quattro motivi principali per cui le corse circensi possono essere considerate il grande e pressoché sconosciuto modello ispirativo dello sport contemporaneo. Riarrangiando un celebre motto della cultura medievale, siamo nani sulle spalle (sepolte) del Circo Massimo. Cerchiamo di analizzare perché.

 

Il primo è la continuità delle forme agonistiche. Non sono ancora oggi le corse di carri e cavalli, divenuti nel frattempo d’acciaio e fibra di carbonio, parte rilevante del paesaggio sportivo contemporaneo? Non ci eccitiamo alla partenza di una gara di Formula Uno o di Moto GP come i Sabini giunti a Roma? Il rischio di collisioni e incidenti, anche mortali, non è forse uno degli elementi costitutivi del fascino spettacolare degli sport motoristici? Da questo punto di vista l’epico duello Villeneuve-Arnoux sembra uscire direttamente da una corsa del Circo Massimo.

 

Pianta del Circo Massimo


 

Il secondo è l’invenzione di quella grande “infrastruttura sociale” che è il tifo sportivo, oggi pienamente ed inconsapevolmente ereditata dal calcio. A partire dall’età tardo repubblicana e poi pienamente in quella imperiale le corse dei carri si struttureranno attorno a quattro squadre (chiamate factiones), identificate da un colore (Verdi, Azzurri, Rossi e Bianchi, legati alla simbologia delle stagioni). La loro nascita si deve a ragioni organizzative, ovvero soddisfare la necessità da parte dello Stato non solo di procurarsi cavalli e aurighi, ma anche di allenarli e formarli. Dobbiamo pensare alle fazioni come a club professionistici, con tanto di sedi, dirigenti apicali, personale di servizio, capi-tifosi. Soprattutto, dobbiamo pensarle come grandi riferimenti della partecipazione popolare, in senso trasversale. Tifare è partecipare alla contesa per la vittoria con un’intensità maggiore del semplice guardare. È trasformare questo guardare in un fare mobilitante in senso corporeo, vocale, fisico. La passione circense non consisteva poi solo nell’assistere alle corse, ma in tutte le discussioni che precedevano e seguivano questi momenti, senza soluzione di continuità. I tifosi più assidui assistevano agli allenamenti, sapevano tutto dei propri beniamini, tenevano il conto delle vittorie, scommettevano. Uno storico dell’età costantiniana, Ammiano Marcellino, descriverà le loro notti insonni alla vigilia di gare importanti. Alcuni di loro arriveranno a far iscrivere sulle proprie tombe la propria appartenenza sportiva. Tifare al circo significava ovviamente anche tifare contro, gesto ben simboleggiato dalle cosiddette defixiones, le maledizioni contro cavalli e aurighi delle squadre avversarie iscritte su tavolette di piombo che venivano poste negli altari delle divinità infere, in una logica della rivalità che poi a Bisanzio sfocerà direttamente nella conflittualità politica. Davvero queste descrizioni sono un mero passato, o non parlano invece anche di noi?

 


Mosaico nella Villa romana del Casale, Piazza Armerina


   
Il terzo motivo è la proliferazione degli spettacoli sportivi. I Giochi di Olimpia avevano una presenza temporale limitatissima, una settimana ogni quattro anni. Tutto il contrario invece del modello circense, basato sulla ripetizione costante delle corse. Nell’età imperiale lo spazio della romanità si dissemina di circhi. Secondo il calendario di Filocalo del 354 ben 64 erano i giorni dell’anno consacrati alle gare dei carri, con 24 corse per ognuna di queste giornate. Da questo punto di vista non viviamo forse in un’epoca simile? Non proliferano anche nel nostro presente spettacoli sportivi di ogni genere, con l’aggiunta della partecipazione televisiva a quella dal vivo? Non vengono edificati (o riammodernati) ogni giorno in giro per il globo nuovi edifici monumentali per contenere sguardi e passioni di tifo? Ecco, magari in Italia meno. Grave sciagura davvero non saper più minimamente corrispondere al genio architettonico dei nostri avi latini che edificarono il Circo Massimo.

  
Il quarto motivo è il potere delle grandi personalità vincenti. La superstar delle corse del Circo Massimo fu Gaio Appuleio Diocle, professionista talmente abile e capace nella sua arte di guida da escogitare modi sempre più spettacolari per vincere colpendo il pubblico, ad esempio in calcolata rimonta sugli avversari. Ci è noto il suo curriculum vittorioso, e addirittura il conteggio dei suoi guadagni, extra-mondo per gli standard dell’epoca. I campioni delle corse dei carri provenivano tutti dalle classi più basse, erano generalmente schiavi che grazie ai successi sportivi potevano sperare di diventare cittadini romani. Ma anche su questi aspetti, non stiamo evocando un mondo che ci è intimamente familiare? Il legame tra vittoria sportiva e riscatto sociale non è anche oggi uno dei segni salienti dello sport professionistico? Diocle veniva dal Portogallo, come qualche superstar sportiva del presente a noi molto nota.

  
Occorre però definire una distinzione concettuale importante. Non è pensabile separare lo sport antico dal politeismo pagano e dai suoi numerosi riti sacrificali e devozionali. Vale per i grandi agoni greci che si disputavano nei grandi santuari posizionati lontani dalle città: il tempio di Zeus a Olimpia , quello di Apollo a Delfi. Vale per il Circo Massimo, una costruzione tutta orientata alla connessione tra mondo infero (nel primo punto in cui i carri giravano era interrato un altare al già citato dio Conso) e mondo superiore (i due obelischi egizi presenti sul basamento divisorio, che oggi troviamo a Piazza del Popolo e in Laterano, erano un omaggio al dio Sole). Da questo punto di vista la costruzione più emblematica era il pulvinar, il palco imperiale dove venivano messi cuscini e cibo per gli dei, perché anche loro potessero assistere alla gara sedendo e banchettando con l’imperatore (anche lui divinizzato), nella postazione privilegiata per assistere all’arrivo delle corse. Perché il mondo classico celebrava così tanto i vincitori di gare sportive? Perché primeggiando manifestavano questo segno del dio che vince nell’uomo, non solo le proprie abilità e capacità. Al di là di accostamenti tanto facili quanto fuorvianti, lo sport antico esprime questa sua differenza non colmabile. Nell’accostare il mondo dello sport contemporaneo a quello antico bisogna sempre tenere a mente il celebre verso del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin, quel “più non son gli dèi fuggiti” che ci rappresenta un mondo che non possiamo più attingere nella sua essenza. Proprio in ragione di questo legame religioso gli spettacoli sportivi verranno prima duramente attaccati dal cristianesimo delle origini, soprattutto da Tertulliano, poi progressivamente dissolti con l’instaurarsi dell’evo cristiano.

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