Pédar, l'enfant du pays. I novant'anni di Pietro Nascimbene
Il mondo scoperto in bicicletta e quel salotto pieno di amici che sono venuti a salutarlo e a fargli gli auguri. Dalla Legnano alla Carpano agli ordini di Fausto Coppi, storia a pedali di un gregario campione
C’è un’espressione francese che a tradurla non rende tutto il senso che si porta dietro. Dire enfant du pays è molto di più che “figlio del paese”. Il pays non è semplicemente il paese, il villaggio; ha qualcosa a che vedere con le radici di una comunità, di una piccola patria che riconosce se stessa in pochi ma indelebili simboli. E poi non basta tradurre enfant con la parola “figlio”, o con “ragazzo”. Mi ricordo che quell’espressione la sentivo pronunciare da Adriano De Zan quando nelle sue telecronache voleva sottolineare quando un corridore che stava dando il meglio di sé in una gara, lungo un’impegnativa salita o negli ultimi chilometri di un arrivo di tappa, trovava energie insospettate proprio perché era l’enfant du pays, e cioè correva sotto gli occhi di tifosi che per lui erano padre e madre, fratelli e sorelle, amici d’infanzia e vecchi amici che lo avevano visto crescere. Occhi per i quali quel corridore, magari ormai campione affermato, restava sempre un enfant, un figlio, un ragazzo di quella terra.
Pietro Nascimbene con Gino Cervi (foto di Davide Ferrari)
Il campione e i suoi tifosi
Pietro Nascimbene, classe 1930, rimarrà per sempre un enfant du pays anche se lo scorso 22 febbraio ha compiuto novant’anni. Rimarrà per sempre quel luminoso e gagliardo ragazzo, quella faccia chiara e aperta da irlandese d’America, quasi kennedyana, che negli anni Cinquanta compariva sulle pagine delle cronache sportive, a fianco di Bobet e di Anquetil, di Nencini e di Baldini, e ovviamente di Fausto Coppi, il Campionissimo. Quell’enfant che in bicicletta faceva stravedere quelli del suo pays, Montalto Pavese, villaggio a poco meno di 400 m di altitudine disteso sulla collina tra le vigne del Riesling e il rosso profilo del castello Belcredi, vera torreggiante bussola nel paesaggio dell’Oltrepò.
Ancora a distanza di sessant’anni, anche il nome di Pietro e il racconto delle sue imprese ciclistiche continuano a torreggiare nella memoria di chi continua a volergli bene e a tifare per lui. Per questo a ca’ ad Pédar, a casa di Pietro, l’altro giorno c’era tanta gente a festeggiare le sue novanta primavere e a ricordare di quando muoveva frotte di suiveur che andavano a incitarlo per le strade del Giro d’Italia, o della Milano-Sanremo. I nomi, o meglio i soprannomi, dei protagonisti di quelle avventure sono già di per sé un romanzo. Sulla Fiat 1400 nera, guidata da Baviò, salivano un numero imprecisato di sostenitori, come in quegli sketches comici del cinema muto anni Venti: c’erano il Carlet di Frè, l’Armand ’d Pipotu, Cianola e Pitelu, Pedar ’d Gustò e Giuli ‘l Savatè, Gaba ‘l Dasiè e il Ginio, il fratello di Pietro; e anche il Giâ, che si portava dietro il più piccolo della compagnia, il Dario, che oggi è tra i più irrefrenabili depositari di quelle scorribande tifose. Se la corsa era di lunedì, allora si aggregava anche il Medardo, il barbiere del paese. Ognuno aveva la sua funzione: Baviò, appunto, guidava; Gaba ‘l Dasiè, vestito con un inconfondibile trench nero, faceva un tifo scimmiesco, in largo anticipo degli esagitati in maschera che popolano oggi le schiere dei tifosi al passaggio dei corridori; Pedar ’d Gustò era lo specialista delle spinte in salita che, come spiega scientificamente il Dario, vanno date con perizia e non per far andare più forte chi vuole soltanto alleviare la fatica dell’ascesa. Il raggio d’azione della brigata montaldese andava da Genova a Tortona, dalla Brianza al Velodromo Vigorelli. Quando poi le trasferte erano proibitive allora, ci si attaccava alla radio, prima, e dopo alla televisione, al bar di Tobia. O si aspettava che il giorno dopo qualcuno da Casteggio arrivasse con la Gazzetta per la lettura collettiva della cronaca della gara del giorno prima.
In bici col fornello da gas
Per tutti loro, Pietro Nascimbene era Pédar d’la Furnasata, la Fornasetta, una frazione di Montalto che scivola giù verso la valle del Coppa. Era nato lì, il 22 febbraio 1930. Figlio di Carlo, muratore, e di Rosina, detta Zita. Quando nasce Pédar hanno Carlo e Zita già altri quattro figli: Palmiro (1915), Rosali (1919), Virginio (1922) e Augusta (detta Rina, 1924). Pédar arriva in coppia, con la gemella Giovanna: così che, dice lui scherzando, non ha mai saputo se sia stato il quinto o il sesto della piccola tribù dei Nascimbene. Un cognome che è anche un buon auspicio.
Pietro scopre la bici da ragazzo, ma non per divertimento. Serve per andare a lavorare insieme al padre e ai fratelli muratori. Su e giù per le strade dell’Oltrepò che sanno essere aspre e dure come coltellate. Pietro si diverte a lasciare indietro gli altri. E allora si chiede perché non provare a correre. La famiglia non è che sia proprio d’accordo ma lo lascia fare. La prima bici da corsa, ricorda Pietro, è stata per lui un privilegio: 1948, col cambio a bacchetta Campagnolo. Prima bici, prime gare, prime squadre: US Pavese, Pedale Vogherese, poi Excelsior Milano e il Veloce Club Rolando di Alessandria. Si lavora e si corre, e quando si corre, come quando si lavora, si cerca di guadagnare qualcosa. Come quella volta che da Pieve del Cairo si portò a casa, per 50 km, in bicicletta, tenendolo sotto braccio, il premio della corsa: un fornello da gas. Pietro tiene bene il passo in pianura, si difende in salita. Si mette in luce tra gli allievi e i dilettanti: una ventina di vittorie tra il 1948 e il 1952, tra cui una Torino-Finale Ligure, una Milano-Genova, una Coppa Rinascente-Upim e la classifica finale del Giro dell’Umbria. Alla fine del 1953 viene messo sotto contratto dalla Legnano.
Alla scuola di Eberardo Pavesi
La Legnano è come dire l’Università del ciclismo nazionale e la libera docenza, da trent’anni, la tiene Eberardo Pavesi, detto l’Avocatt. Prima pioniere del pedale e poi sagace direttore sportivo con basco, pipa e calzoni alla zuava, sotto di lui sono passati tutti i più grandi: da Brunero a Binda, da Bartali al giovane Coppi, vincitore del Giro del 1940.
A Pédar dla Furnasata, e ai suoi fedeli supporters, non sembra vero. Il mestiere del corridore ciclista gli fa girare il mondo. E se fino a poco prima i traguardi erano Bastida Pancarana e Pieve del Cairo, Tortona o Valenza, o al massimo la Riviera o la Brianza, adesso diventano il Belgio e le Asturie, le isole britanniche e il Marocco, Dunkerque e la Catalogna; e poi le classiche: la Sanremo e la Roubaix, la Parigi-Tours e la Parigi-Nizza. Ma soprattutto Giro d’Italia e Tour de France. Pietro in corsa si difende bene. Conosce le regole del gioco: deve mettersi “a disposizione” dei più forti, fare gioco di squadra a vantaggio dei capitani, ma sa anche togliersi qualche bella soddisfazione. Sei stagioni tra i professionisti, dal 1954 al 1959, senza contare gli ultimi mesi del 1953, quando, già sotto contratto per la Legnano lo vengono a chiamare all’ultimo minuto a Montalto per sostituire Nencini, infortunato, e correre in coppia con Albani il Trofeo Baracchi: arriveranno quinti. Sei stagioni e sette vittorie: due semitappe a Virton, al Giro del Belgio (1954), una tappa a Casablanca al Giro del Marocco (1955), il Trofeo Giudici di Rho (1957) e la prima tappa della Parigi-Nizza, a Auxerre (1958).
Alla vittoria al Giro manca una Vespa
Ma soprattutto il successo alla Grosseto-Livorno, 10a tappa del Giro d’Italia del 1956, al termine di una fuga di pochi audaci durata fin dal mattino. Quel giorno Pedar si porta a casa mezzo milione di lire in premi. Il percorso sfiora a Pontedera la fabbrica della Piaggio che, per il vincitore di giornata, ha messo in palio anche una Vespa che però, a Montalto, non arriverà: “Mai vista!” dice ancora adesso con un po’ di ironico rammarico il Pédar. Quell’anno Nascimbene è pure tra gli eroici protagonisti della tremenda tappa del Monte Bondone, quella disputata dentro la tempesta di neve. Arriva nono al traguardo. In tutto partecipa a quattro Giri. In quello del 1955, all’esordio, sale altre due volte sul podio: secondo, per un soffio, a Trieste, alle spalle di Fantini, terzo a Cortina.
Di tutto questo girare il mondo, Pédar si porta a casa ricordi e fotografie: al Giro di Gran Bretagna pioveva sempre, non chiudevano le strade e bisognava tenere la sinistra, roba mica facile; a quello del Marocco i corridori venivano scortati dalla Legione straniera e una volta sono dovuti andarli a riprendere con la camionetta lungo la strada a tarda sera perché avevano forato e non avevano più palmer di scorta.
Pédar le baroudeur
Il 1957 e 1958 sono “anni francesi”. Oltralpe Pietro è molto amato perché è uno di quelli che dà battaglia, che parte in fuga dalla lunga distanza: un baroudeur come dicono loro. E infatti si mette in luce alla Parigi-Tours del 1957, dove gli riconoscono il premio del più combattivo, grazie a una lunga fuga. L’anno dopo partecipa al suo primo e unico Tour: lo porterà a termine al 34° posto ma lascia il segno. Arriva 4° a Béziers e nelle ultime tappe alpine dà il meglio di sé, soprattutto in discesa, buttandosi giù “a tomba aperta”, come avrebbe detto Mario Fossati. A chi gli chiede di quel Tour e di quel bel finale (11° a Briançon e a Aix-les-Bains, 9° a Besançon), Pietro si schermisce: “Eravamo tutti stanchi alla fine. Si vede che gli altri erano più stanchi di me…”. Il più grande rimpianto è però la Parigi-Nizza del ’58, quando, dopo aver vinto la prima tappa ad Auxerre e mantenuto il primato in classifica generale per alcune tappe, la “ragion di squadra”, la Carpano, gli impone di fare strada al capitano, il belga Fred De Bryune.
Dopo il 1953-54 con la Legnano, nel 1955 Pietro ottiene, da indipendente, contratti prima dall’Augustea, poi dalla Girardengo-Eldorado, ma per il Giro d’Italia è ingaggiato dalla Arbos. Nel 1956 lo chiama Coppi alla nuova squadra della Carpano-Coppi. Pietro tocca il cielo con un dito: correrà con il suo idolo e, per soggezione, farà anche un po’ fatica a dargli del tu. La stagione del Campionissimo sarà sfortunatissima, ma di quei mesi Pietro conserva come una reliquia il telegramma di felicitazioni che il Fausto, ritiratosi qualche giorno prima dalla corsa per una caduta, gli invia dopo il successo di tappa a Livorno. Nel 1957 Coppi torna alla Bianchi ma Nascimbene resta ancora due anni alla Carpano. L’ultima stagione, quella del 1959, la corre con la maglia della Molteni e ritroverà Coppi, anche se solo per poco, perché entrambi si ritireranno, nella selezione nazionale che partecipa alla Vuelta a España.
Dai pedali agli agnolotti
Poi Pédar dice basta. E appende la bici al famoso chiodo. Non ha ancora trent’anni ma sente di aver dato il meglio. Lo vengono ancora a cercare proponendogli contratti in Francia e Spagna. Ma lui niente: scende dalla giostra. Nel 1960 si sposa con la signora Anna e va a vivere nel paese di lei, Borgoratto Mormorolo, una valle più in là rispetto a Montalto. Viene assunto in un’azienda metalmeccanica, in pianura. Fa due figli, Stefano e Roberta. E trova il tempo di dare una mano all’osteria Bellaria che i suoceri gestiscono a Inveriaghi, frazione di Borgoratto. La gestirà con la moglie fino alla fine degli anni Novanta. È un posto per intenditori: si mangiano i migliori agnolotti dell’Oltrepò, e i salami “fatti su” dal Pédar, che ha imparato a fare il massapursé come invece non aveva voluto fre il suo capitano. Ma si va alla Bellaria anche per ascoltare le imprese ciclistiche degli anni d’oro di Nascimbene e di quell’Italia che ancora stravedeva per i campioni del pedale.
L’elogio della fatica
Sabato 22 febbraio, a Inveriaghi, dove ancora abita Pédar, il salotto è pieno di amici che sono venuti a salutarlo e a fargli gli auguri per il traguardo dei novanta. Pietro risponde a tutti con un sorriso. E a chi gli chiede ancora degli anni passati a correre in bicicletta risponde placido con qualcosa che assomiglia a un aforisma oltrepadano: “La bicicleta… s’at pias no fa fadiga, lassa perd…”. Pedar Nascimbene, l’enfant du pays.
Nota: Si ringraziano la signora Anna, Stefano e Roberta Nascimbene per le torte, i pasticcini e il caffè; Vanessa Nascimbene per aver tirato la volata; il dottor Dario Pastorelli, meglio noto come l fioeu d’Giâ, per la facondia; e Davide Ferrari per le fotografie.