La solitudine del (vero) giornalista sportivo al tempo del coronavirus è una faccenda seria. Qualcuno potrebbe scriverci un romanzo (più o meno) di successo e candidarsi per il Premio Strega. Beh, questo non è difficile, alzi la mano l’autore italiano che non è in lizza quest’anno. Parliamo del (vero) giornalista sportivo che va nei posti, che cerca e incontra le persone, che racconta storie, nel senso di esistenze, avvenimenti, percorsi, e non storie intese come balle più o meno spaziali. Che intervista gli esseri umani, andandoli a guardare in faccia e non prende solo le dichiarazioni dalle interviste paludate delle tv concessionarie. Gli altri, questa solitudine, nei giorni, nelle settimane, nei mesi e negli anni del Covid-19 non la sentono, non è un loro problema. I cazzari da tastiera, quelli che non sono mai stati da nessuna parte, se non davanti al computer, i migliori (si fa per dire), o solo con gli occhi piantati nello smartphone, i peggiori, non sono mai soli perché si parlano addosso o parlano addosso agli altri, in una babele di commenti saccenti e insulti.
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