il foglio sportivo
La mancanza che stiamo vivendo
Lo sport fermo e la sua “futilità necessaria”. Parla Davide Cassani, ct della Nazionale di ciclismo
Pedaliamo lungo una salita mai affrontata prima. L’asfalto sale in un tentativo di verticalità, punta al cielo. La gravità gioca a sfavore, richiama le ruote a valle, mentre il naso e la volontà vorrebbero la cima. È una sofferenza di gambe, polmoni e testa, mollare sarebbe facile, ma è una possibilità che non viene nemmeno presa in considerazione. Perché la strada può essere lunga e ignota, ma c’è sempre una sicurezza a rincuorare: dopo il passo arriva la discesa per riprendere fiato, rinvigorire la gamba, pedalare ancora.
Poco importa se questo virus sembra lungo quanto Stelvio, Gavia, Galibier e Tourmalet, se ha le pendenze del Mortirolo, dello Zoncolan e dell’Angliru. Il traguardo è a valle e tra Gran premio della montagna e arrivo la pendenza sarà a nostro favore e sui suoi tornanti ritroveremo slancio. Intanto serve affidarsi all’immaginazione, l’unica medicina contro il mal di gambe, l’unico rimedio al fiato corto, e allora “meglio pensare al sole caldo di giugno o di luglio, al venticello ancora fresco della mattina, a quando rimetteremo la bicicletta in strada e torneremo a pedalare”, dice al Foglio sportivo il commissario tecnico della Nazionale di ciclismo italiana, Davide Cassani.
Davide Cassani (foto LaPresse)
Attendere non è però mai stato così difficile. “Viviamo una condizione di mancanza che non possiamo protrarre per sempre. Serve guardare al futuro, accettare quello che avverrà, ripartire per creare un nuovo boom morale, prima che economico”. Soprattutto ora che quello che sembrava scontato e necessario è stato congelato dal virus. Che ci troviamo catapultati in una dimensione alternativa, “dove la naturale cadenza degli appuntamenti è stata stravolta. Prendiamo il ciclismo: la Milano-Sanremo non si è corsa, le Classiche del nord e il Giro d’Italia sono state rimandate a data da destinarsi. Ma è soprattutto lo slittamento dei Giochi olimpici di un anno è la dimostrazione più grande di quanto sia eccezionale la situazione che stiamo vivendo”, continua Cassani. Il Tour de France proverà sino all’ultimo di salvarsi dal rinvio, a costo di dover correre senza pubblico sulle strade. “E sarebbe strano, un rimedio estremo per evitare di perdere pure la Grande Boucle. Il ciclismo è uno sport che ti viene incontro, che ha bisogno del contatto umano, dell’abbraccio del pubblico che in salita ti urla ‘forza’, ‘non mollare’. Pensare che tutto ciò potrebbe mancare è un colpo al cuore. E non solo per noi appassionati, anche per chi corre”.
La pandemia ha creato uno stacco dalla quotidianità, ha cambiato i connotati alle nostre esistenze, “ci sta facendo vivere una cesura del racconto che ci siamo fatti della realtà. E tutto ciò avrà ripercussioni profonde. Ci siamo resi conto che non siamo infallibili, tanto meno invulnerabili, che basta un maledetto virus per metterci in ginocchio e per sconvolgere l’ordinario”, spiega Cassani. Ha mutato i punti cardinali grazie ai quali ci orientavamo nella vita. “E per ritrovarli abbiamo bisogno di ritrovare ciò che ci è stato sottratto. Il Giro d’Italia dopo la Seconda Guerra mondiale è stato il primo grande evento sportivo che ha ridato normalità al paese. Fu il segnale che la grande paura era passata. La mia speranza è che ciò possa accadere ancora e che tutto ciò ci possa servire per capire ciò che è davvero importante nelle nostre esistenze”.
Mai come ora infatti ci è apparso chiaro “quanto lo sport nella sua futilità ci sia necessario. Perché lo sport, visto ma soprattutto praticato, ha una capacità quasi taumaturgica, è capace di riempirti testa, muscoli, cuore, soprattutto ha la capacità di mettere ordine nel disordine dei pensieri, dare un senso alle idee”, sottolinea il ct degli azzurri.
Le pedalate sono state sospese, le ruote hanno iniziato a muoversi sui rulli, approdo necessario per evitare di tenerle ferme del tutto. “Ma in una condizione di assenza anche un palliativo ci sembra una conquista”. E così la fantasia (o un algoritmo) trasforma i muri in panorami, quelli che non si possono vedere scorrere. Anche perché fuori da quelle mura i ciclisti sono visti con sospetto, con paura, sono diventati sgraditi, per molti hanno assunto le sembianze degli untori. Insulti, minacce, tentativi di speronamento si sono susseguiti nei confronti di chi pedalava sulle nostre strade. E così la Federazione ha chiesto ad amatori e professionisti di usare quel buonsenso che manca molto spesso dalle strade. “I messaggi che abbiamo mandato hanno sortito l’effetto che speravamo. Gli amatori hanno recepito che in una situazione del genere è meglio non rischiare di mettere in difficoltà ulteriore le strutture sanitarie”, spiega il ct.
Un sacrificio necessario sebbene in molti paesi europei proprio la bici era stata consigliata come mezzo di locomozione più sicuro perché “consente di mantenere una più che abbondante distanza dagli altri”, aveva detto il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn. “Poteva essere questa l’occasione per renderci conto di quanto la bici può essere importante. Non mi riferisco al suo utilizzo ludico o sportivo, ma alla sua utilità per i movimenti di tutti i giorni. Pedalando la distanza dagli altri è un’esigenza. Questa rabbia contro i ciclisti è ingiustificata. Trovo maleducato inveire contro qualcuno senza sapere chi è e perché pedala. Anche perché tra chi pedalava c’erano uomini e donne che lo facevano per lavoro o per recarsi al lavoro”.