Addio Franco Lauro, voce storica del basket italiano
Il giornalista è morto all'età di 58 anni. Ha raccontato e commentato lo sport italiano e, soprattutto, la nostra pallacanestro. Quella commozione durante la finale degli Europei del 1999
Me la ricordo, la finale del 1999. Carlton Myers che non mollò il pallone nemmeno a partita finita, lo tenne con sé - prima sotto il braccio, poi sotto la maglia come una gravidanza improvvisa e felice - anche sul podio, mentre premiavano l'Italia del basket campione d'Europa. Me la ricordo perché i suoni, i volti, i nomi di quelli che stavano esultando, in campo e in tv e in quell'attimo, erano familiari da anni, in una casa di innamorati della pallacanestro come la mia. L'Italia aveva vinto l'Europeo a Parigi e ce lo stava dicendo Franco Lauro, la voce con cui eravamo cresciuti un po' tutti, noi del piccolo mondo del basket. Quella delle partite del sabato, lui con Gianni Decleva e lui dopo Gianni Decleva, quella che se c'era vuol dire che il nostro sport faticosamente stava prendendo spazio in tv. Bastava sentirla.
Anni dopo, molti anni dopo, l'ho incrociato nei corridoi di Rai Sport e gli ho raccontato brevemente solo questo, che la sua voce aveva accompagnato momenti in cui io, mio padre, mio fratello e mia madre guardavamo la stessa cosa con irripetibile intensità, che se ci penso sono momenti molto rari. Ero imbarazzato io, ma anche lui. Lo salutai. Non ci siamo incontrati altre volte, però era bello avergli fatto quella confessione, così come era buffo, nei miei anni da autore di 90° minuto, vederlo in onda a raccontare le partite di Serie A di calcio e pensare che quella era in realtà la voce a cui legavo i sogni sportivi della mia adolescenza, del basket. Una continua evocazione, come la madeleine di Proust.
Franco Lauro è morto e subito è stata una cascata di ricordi di chiunque, ovunque. Perché negli anni in cui un volto rappresentava uno sport, quel volto lo vedevi sempre e diventava una compagnia per intere generazioni. E sono quelle generazioni (due, almeno) che sentono in questo momento ronzare nella testa i suoi giochi verbali, il suo urlare la “tripla”, i soprannomi che dava a ogni cestista. Se ora scrivo Gregor Fučka, chi sta leggendo e ha seguito il basket negli anni di Franco Lauro sente l'inconfondibile cadenza con cui scandiva “l'airone di Kranj”. Se scrivo Gianmarco Pozzecco rimbomba quel “mosca atomica” con cui l'aveva battezzato. Poteva farlo perché poi il suo gergo diventava il gergo di tutti. Perché era uno che faceva parte del “movimento”, quindi se amavi la pallacanestro da un certo punto in poi non potevi che associarla a quella voce ritmata, a quel tono, a quella faccia.
La finale di Parigi. Mi sono ricordato di quella partita quando ho saputo della sua morte e sono andato a rivedere i secondi finali. Quando ce la stavamo facendo e non ci sembrava vero, eravamo dieci punti avanti sulla Spagna a meno di un minuto dalla sirena eppure non riuscivamo a dire che stavamo vincendo. Poi Dino Meneghin, un monumento, il dirigente, il padre un po' di ogni cestista, ha abbracciato il figlio Andrea, uno dei pilastri di quella nazionale, e abbiamo capito che sì, eravamo campioni. E lì, rivedendola adesso, Franco Lauro si ferma, sta per piangere, non ha la sua voce ma quella della nostra emozione. Riprende il tono dopo qualche secondo e va dritto fino alla fine. Vinciamo e stavolta è vero. Dicevano sempre che non ne saremmo mai stati capaci, che l'Italia del basket non avrebbe mai vinto e invece con tutte quelle persone che sembravano un po' la nostra famiglia ce l'avevamo fatta. Ora che ci penso, una cosa del genere la disse proprio Carlton Myers alla fine, quando con il pallone ancora sotto la canottiera azzurra rispondeva a Franco Lauro.