il foglio sportivo
Idee per la “rivoluzione dolce” che dovrà cambiare e salvare lo sport
Investimenti strutturali, trasformazione delle città, attenzione alla salute. Il segretario generale della Fidal, Fabio Pagliara: “Ho avuto il Covid, bisogna ricominciare. Così”
No, non è una semplice e banale influenza. L’ho scoperto sulla mia pelle da “under sessanta” senza particolari patologie pregresse, non fumatore, forse non salutista ma neppure ideologo del cibo-spazzatura: ho preso il coronavirus e dopo quaranta giorni non ho ancora le stimmate della doppia negatività che sanciscano la guarigione definitiva. Sto meglio, la polmonite è ridotta a qualche colpetto di tosse ogni tanto, ho recuperato la voce, mi stanco di meno, ma convivo ancora con questa presenza subdola nel mio organismo, restando, come tutti, soggetto di studio per capire l’evoluzione del Covid-19 nell’organismo umano. Fino a che tutto quello che racconta la televisione non capita a te, pensi che sia una delle pagine di un racconto di fantascienza. Poi arriva la febbre che sale e scende, la tosse secca che diventa compagna delle tue giornate, il saturimetro che segnala il livello di guardia dell’ossigenazione dei polmoni; e arriva la paura, lo sguardo di tuo figlio preoccupato perché nessuno vuole ricoverarti fino a quando la situazione non peggiorerà, con la consapevolezza che quando questo accadrà potrebbe essere troppo tardi.
E poi peggiori.
La corsa in ospedale e quel tunnel, fatto di luci, immagini, volti, odori fortissimi, sensazioni che portano il tuo cuore, letteralmente, a impazzire, mentre combatti con la morte, per la vita, in un frullatore di medici, infermieri, operatori sanitari che diventano un tuo parente, prossimo, il tuo migliore amico, la ragione stessa per spingere le lancette e strappare un altro foglio dal calendario.
Combatti, perché lo sport ti ha insegnato a farlo, sapendo di doverlo fare anche per quel ragazzo che ti aspetta a casa, prigioniero di una quarantena forzata e in isolamento anche più di te, perché potrebbe essere l’untore, come chiunque altro, come ogni persona che incontriamo per strada o al supermercato.
Giorni e giorni nei quali quegli angeli con il camice rischiano di contagiarsi ma non indietreggiano di un millimetro e vivono ogni battaglia, per il cinquantaseienne Pagliara come per il novantenne del letto a fianco, sentendola profondamente loro, incarnando una etica della responsabilità che facciamo fatica a riconoscere fuori da queste situazioni estreme. Non li ringrazierò mai abbastanza. Non dimenticherò il terrore nei loro volti, seppur nella precisione e nella professionalità delle loro decisioni, quando il mio cuore ha deciso di andare a mille e mi ha scaraventato in terapia intensiva per qualche giorno. Ciascun malato potrebbe essere un numero, in una situazione del genere, invece siamo uomini e donne, storie da raccontare, esistenze da preservare.
Il segretario generale della Fidal (foto tratta da Casa Atletica Italiana)
“Adesso bisogna ricominciare”, ho detto subito a me stesso; anche dalla stanzetta d’albergo del Centro nel quale si aspetta il doppio tampone positivo, ragionando subito su come lo sport possa e debba reagire a una crisi epocale che lo ha investito e quali possano esser gli scenari possibili.
Intanto è fondamentale “guardare la luna” e non il dito, perché l’unico modo per risolvere le situazioni complicate nel breve periodo è quello di programmare una ripartenza nel medio e nel lungo, puntando sulla programmazione e su interventi strutturali da affiancare a quelli emergenziali, che dovranno esserci per evitare che sparisca quel mondo che ha tenuto in piedi il sistema sportivo a livello periferico, basato sul volontariato e sulla libera iniziativa delle società.
Andiamo con ordine. Gli sportivi “individuali” dovranno abituarsi a espressioni come “distanziamento fisico”, presupposto fondamentale per una pratica responsabile, ligia alle regole e rispettosa anche delle legittime paure di chi sportivo non è. Questi mesi ci hanno insegnato due cose, a tal proposito: innanzitutto che lo sport è molto più importante, per il cittadino medio, di quanto non avessimo percepito in una condizione di normalità, in epoca pre-coronavirus, se è vero che la corsa sotto casa, entro i duecento metri, da sola o in compagnia, è diventata argomento privilegiato nei talk-show, oggetto di dibattito fra esperti, materiale per meme sui social. C’è un’altissima percentuale di italiani che considera la corsa e la pratica sportiva come essenziali per la propria quotidianità, tanto da aver causato una reazione, a volte anche irrazionale, in chi non riusciva a spiegarsi per quale motivo in pieno isolamento ci fosse chi sentisse l’esigenza di una sgambata mattutina. Questo è un ulteriore elemento dal quale ripartire: le città come palestra a cielo aperto rappresentano un contesto ideale nel quale favorire comportamenti virtuosi e sarebbe un peccato non approfittarne per lanciare una campagna di adeguamento dello spazio pubblico alla pratica sportiva, verso quelle SportCity che ho raccontato in un libro dedicato alle città sportivizzate. Le città avranno un ruolo fondamentale anche nel ripensare agli eventi sportivi che presuppongono una partecipazione ampia di atleti: sarà impossibile nel breve periodo, o comunque fino a una cura o a un vaccino per il coronavirus, ma nel medio e lungo periodo occorrerà porsi il problema di creare le condizioni perché questi si possano svolgere ugualmente, contingentando i partecipanti, scaglionando le partenze in alcune gare e discipline specifiche, studiando protocolli di sicurezza adeguati all’emergenza che diventerà normalità.
Pensiamo un attimo se la cosiddetta Fase 2 fosse un piano straordinario di trasformazione delle nostre città, con interventi per trasformare i parchi cittadini in parchi del benessere, per costruire quelle piste ciclabili o da running che sarebbe stato magari impossibile anche solo immaginare, senza tutto quello che stiamo vivendo.
Un piano straordinario per riempire i parchi di attrezzature sportive, sistemate con le giuste distanze, per quando finalmente torneremo a una vita più normale, alla continua ricerca della felicità, sempre e comunque, anche quando la quotidianità ti racconta una realtà diversa.
E poi ci saranno gli sport di squadra da salvaguardare, sia quelli di contatto, la cui ripresa a breve scadenza è quasi impossibile, sia quelli nei quali la condivisione degli spazi imporrà regole per i partecipanti e, quasi certamente, la necessità di ripensare gli spettacoli “a porte chiuse”, utilizzando la tecnologia come ausilio, in una fase transitoria, in attesa di recuperare la socialità degli eventi dal vivo.
Cosa potranno e dovranno fare le Federazioni? E lo stato?
Come detto le Federazioni dovranno avere il coraggio di adattare i propri meccanismi collaudati, e talvolta farraginosi, a una nuova dimensione, per stare vicina agli atleti agonisti e salvaguardarne il patrimonio sportivo, e soprattutto alla luce di soluzioni diversificate nei vari stati che avvicineranno agli appuntamenti importanti come le Olimpiadi di Tokyo.
Le Federazioni dovranno tutelare quelle oltre 100.000 associazioni sportive che per un principio di sussidiarietà troppo avanzato si sono sostituite allo stato, tutelare quel volontariato professionale che è la colonna vertebrale del nostro mondo.
Nel frattempo lo stato avrà il compito, non facile, di non far morire lo sport. Non solo con misure di assistenzialismo ma con un progetto organico di sviluppo: credito d’imposta, agevolazioni per l’utilizzo degli impianti e del suolo pubblico per gli eventi, interventi di salvaguardia per i lavoratori dell’indotto, rappresentano misure indifferibili, tenendo conto del peso economico e sociale che l’industria dello sport possiede, del suo valore materiale e immateriale, della connessione con stili di vita che potranno in un futuro prossimo diventare di ausilio per affrontare emergenze come questa con difese immunitarie adeguate.
I grandi temi della rinascita dello sport, sui quali ci siamo sempre interrogati, restano tutti sul tappeto e la crisi causata dal coronavirus ne accelera, paradossalmente, la “discesa in campo”: il ruolo della tecnologia, la specializzazione degli operatori sportivi , la meritocrazia, la professionalizzazione e il riconoscimento di chi lavora nello sport non potranno che rappresentare il futuro, soppiantando l’improvvisazione, l’eccessivo peso della burocrazia e la tendenza conservativa che continua a regnare a ogni livello, impedendo la modernizzazione del sistema.
In fondo quella che attende lo sport è una “rivoluzione dolce”, da fare con il sorriso ma improcrastinabile perché ormai unico argine al baratro verso il quale tutti noi andremmo senza reagire agli eventi. Sentiamo il bisogno fortissimo di normalità, di recuperare la dimensione ludica e sociale dello sport, di pensare alla nostra felicità futura, messa a dura prova dai morti, dai bollettini quotidiani della protezione civile, dalle città blindate, dalle zone rosse, dalle limitazioni necessarie alla nostra libertà personale. Ho quasi sconfitto il coronavirus, seppure la battaglia è ancora lunga, ma i tempi dilatati del ricovero ospedaliero mi hanno dato modo di pensare a me stesso e al mio mondo, sia in una dimensione intima, personale, famigliare, sia in riferimento a quella che ritengo la mia “famiglia allargata”, quella sportiva. Per questo credo che i tempi vadano declinati al futuro. Siamo gente di sport: vinceremo anche questa battaglia.
Fabio Pagliara
Segretario generale Federazione Italiana Atletica Leggera