il foglio sportivo
Non chiamatelo pensionato. Il mio Ratko, da Barcellona a Recco
L’addio di Rudic alla pallanuoto raccontato da un amico che prima lo odiava e poi ha mentito per lui
“Sono a Zagabria”. E che fai? “Sto in quarantena. Di nuovo. Tu sai, chi viene dall’Italia viene guardato con sospetto, tutti hanno paura degli italiani”. Ratko Rudic è italiano, croato, serbo, cittadino del mondo. Tutto ma non pensionato. A quasi 72 anni ha annunciato l’addio. L’aveva già fatto nel 2016, dopo aver guidato l’ennesima nazionale (il Brasile) in un’avventura olimpica. Poi la sfida del club, la tentazione Pro Recco.
All’inizio io Ratko l’ho odiato, poi gli ho voluto talmente bene che ho anche mentito per lui. Senza pentimenti. Questa è la storia del “mio Ratko”. I vecchi del mestiere, all’uso della prima persona, andavano in fibrillazione. Ma la terza, con lui, ha ormai fatto il suo tempo. La prima volta che ho incontrato Ratko Rudic è stata a Rapallo, in una calda sera d’estate del 1986, l’ultima a Recco, inverno 2020. In questa seconda ci siamo trovati al supermercato. Era il primo lunedì di lockdown. “Sono preoccupato per l’Italia, ma soprattutto per lo sport”. Sapeva già che la sua storia con il Recco sarebbe finita a giugno. Ma non così. Voleva la Champions nella Final Eight di Punta Sant’Anna, la storica piscina restaurata per l’occasione. Waterpolo is coming home, parafrasando lo slogan degli Europei di calcio inglesi del 1996. Il coronavirus lo ha impedito.
Al primo incontro, invece, non eravamo vicini. Io davanti alla tv, lui a bordo vasca durante la finale dei Mondiali 1986, Italia-Jugoslavia. Una delle partite più incredibili della Santa Waterpolo, tra la più forte squadra degli anni Ottanta e la giovane Italia a trazione Posillipo. Perdemmo dopo quattro tempi regolamentari e sei supplementari e io odiavo quell’omone esagitato. Mi sembrava il classico orso dell’Est, quello dipinto nella propaganda anticomunista di un settantennio fa, quello che voleva farsi il bagno nella fontana del Papa. Nel frattempo se lo fece in piscina, con l’oro. Quando la Federnuoto lo ingaggiò (1990), ero ancora contro. Mi aveva scippato l’oro mondiale del 1986 e ora prendeva pure il posto del mio amico Fritz (Dennerlein). A Barcellona (1992) avemmo uno scontro. Io avevo scritto che la semifinale Spagna-Usa era la vera finale. Vinsero Estiarte e soci. Favoriti contro l’Italia. La fin(al)e è nota: oro olimpico per il Settebello dopo tre supplementari. Ratko in conferenza stampa mi citò senza nominarmi “Qualcuno ha scritto che la vera finale era l’altra”. In altre situazioni mi sarei intristito/arrabbiato/vergognato, ma chi vince un oro olimpico con il Settebello può farmi ciò che vuole. Diventammo amici nel 1995. Anche in questo frangente mi mise in difficoltà, epurando in massa la golden generation, i fratelli Porzio, Fiorillo, Ferretti, Campagna. Ragazzi che avevo visto crescere, protagonisti del trittico Olimpiade (’92), Europei (’93), Mondiale (’94). Fui nella ridottissima pattuglia che difese la sua scelta. C’è chi arrivò perfino a sostenere che “Rudic l’ha fatto perché i grandi campioni gli fanno ombra”. Sciocchezze. Tutto, anche l’opinione che ha di se stesso, in lui viene dopo il raggiungimento dell’obbiettivo. A Vienna, all’ombra del Prater, al cui interno avevano sistemato, con una scelta intrigante, la piscina, mi prese in disparte. “Tu sai. Non è stata una scelta facile. Grazie di aver capito”. Ebbe ragione. Fu di nuovo oro. Un anno dopo arrivò il bronzo di Atlanta, dopo la sconfitta nella semifinale olimpica con la Croazia.
In tribuna, due giornalistoni con rubrica in prima pagina, quelli che noi inviati sportivi chiamiamo “calamari” perché sgusciano fuori dai fondali durante l’Olimpiade, sdottoravano di tattica come se avessero parlato dell’Ulivo o della monarchia inglese, mentre noi della Santa piangevamo. Non averli menati è uno dei miei grandi rimpianti.
Cinque grandi competizioni, cinque volte sul podio. Quattro ori e un bronzo. Da lì, il declino. Con Ratko ci vedevamo spesso. Lui frequentava il calcio, spesso era a Torino a vedere la Juventus. Quando passava da Milano andavamo a cena. Una notte finimmo in mezzo al “nebiùn” ai margini della città, vicino a Linate, doveva aveva l’hotel. “Tu sai strada, Roberto?”. Sapevo.
Non pensavo che sarei arrivato a mentire per lui. Accadde dopo l’Olimpiade del 2000 a Sydney. Il Settebello aveva perso la sua spinta. La squadra che nel 1992 era stata più forte anche dell’arbitraggio scandalosamente filo spagnolo del cubano Martinez, alla fine del millennio non aveva più la capacità impedire agli arbitri di nuocere. E questi si accanirono. Ratko aveva acquistato un prestigio enorme. Era stato il fautore del distacco della pallanuoto dal nuoto in Europa: i primi campionati separati si disputarono a Firenze (1999). Il Mondiale di Perth (1998) e l’Olimpiade di Sydney (2000) al di là delle debolezze azzurre, furono caratterizzati da arbitraggi persecutori. Dopo l’eliminazione da parte dell’Ungheria nei quarti di finale a Sydney, Ratko evocò il complotto. Sbagliò. Anche se avesse avuto ragione (e un po’ l’aveva) non sarebbe servito a niente. Gli diedero un anno di squalifica. Firmai una memoria difensiva con cui i suoi avvocati cercavano di alleggerire le sue dichiarazioni australiane. Senza scrupoli, né rimorsi. La botta arrivò lo stesso. Ma passò. Con il titolo Mondiale (2007) e quello olimpico (2012), il quarto con tre nazionali diverse, con la Croazia. Quando ha battuto l’Italia a Londra, nel 2012, dopo la conferenza stampa mi ha detto: “Dai, se vi ho battuto io fa un po’ meno male. Tu sai”. Un po’ meno, ma tanto male comunque. L’ultima volta che abbiamo pranzato insieme, focaccia della Manuelina, ricciola in carpaccio con pepe rosa e sale affumicato, morone con finocchi marinati e topinambur, aveva l’entusiasmo di sempre. Con il presidente Maurizio Felugo si sono inventati la Champions itinerante. Un suo vecchio pallino: portare la Santa fuori dai santuari, aprirla a tutti. “Bellissimo il rapporto con Maurizio e il Recco. Sono disponibile per altri progetti. Che cosa sarà il futuro? Ho fatto schizzi, in questo periodo, li tramuterò in quadri”. In fondo è quello che ha sempre fatto.