La resa di Vettel, il campione che non è mai diventato campionissimo
Il pilota annuncia la fine del suo rapporto con la Ferrari. La sua parabola è cominciata a scendere dopo l'incidente nel Gp di Germania del 2018. Piuttosto che fare la spalla di Leclerc ha deciso di dire basta
Più che la fine di un amore, assomiglia alla fine di una vita. Il divorzio consensuale tra la Ferrari e Sebastian Vettel dopo sei stagioni, 101 gran premi e 14 vittorie insieme, mette molto probabilmente le parole “The end” sulla carriera di un ragazzo diventato campione, ma non campionissimo. Sebastian era arrivato a Maranello con l’obbiettivo di riuscire nell’operazione fallita ad Alonso e vincere quel titolo Mondiale che avrebbe permesso a lui di emulare la carriera del suo grande idolo, Michael Schumacher e alla casa di Maranello di riprendere una corsa interrotta ormai dal 2007 anno dell’ultimo campionato piloti conquistato con Kimi Raikkonen.
La parabola di Seb ha cominciato a scendere rapidamente il 22 luglio 2018 quando nel Gran premio di casa sua in Germania ha terminato contro le protezioni la sua fuga verso la vittoria e verso un Mondiale che quell’anno avrebbe potuto afferrare strappandolo dalle mani di Hamilton. Quel giorno, il primo senza Sergio Marchionne che il sabato precedente era stato sostituito da John Elkann in persona alla presidenza, è la sliding door della carriera di un ragazzo che aveva già vinto quattro titoli mondiali, ma che al quale tutti chiedevano ancora un salto di qualità.
La Ferrari di Vettel contro le barriere durante il Gp di Germania nel luglio del 2018 (foto LaPresse)
Vincendo quella gara che stava dominando prima della pioggia, avrebbe allungato il suo vantaggio in classifica a 15 punti, scivolando sul bagnato e ritrovandosi insabbiato, è sprofondato a 17 lunghezze da Hamilton. E in quella domenica, come in tante altre dopo, è venuta alla mente una definizione che proprio Sergio Marchionne aveva dato di lui: “È un tedesco con l’animo di un meridionale, ogni tanto si lascia prendere dall’emozione”. A Seb è mancato il carattere per reggere le pressioni che in una squadra come la Ferrari sono più forti che altrove, è mancata la cattiveria nel corpo a corpo con gli avversari, soprattutto con Hamilton con il quale si era ritrovato pari a quattro titoli mondiali e contro cui ha perso la sfida finale e decisiva.
Vettel è un pilota molto veloce in qualifica (57 pole, di cui 12 a Maranello), molto bravo a creare una bella atmosfera attorno a sé in squadra, ma in gara gli è mancato qualcosa. Era bravissimo (almeno fino a quel Gran premio di Germania) quando andava in testa e poteva fuggire, meno quando doveva rimontare o combattere. Enzo Ferrari lo avrebbe paragonato ad Ascari nel modo di correre. Gli è mancato quel qualcosa che fa la differenza tra i campioni e campionissimi, tra i campioni e i fuoriclasse, tra i campioni del mondo e gli Schumacher, Hamilton, Senna, Fangio o Prost. Resterà per un po’ il più giovane campione del mondo della storia con il titolo conquistato a 23 anni 4 mesi 11 giorni, ma gli è mancato il passo definitivo verso il Paradiso dello sport quell’olimpo che racchiude gli dei del suo sport.
La Ferrari ha cominciato ad avere dei dubbi sulla sua prima guida proprio in quel 2018 in cui aveva una macchina per restare in lotta fino in fondo. Ha capito che con Vettel avrebbe potuto battere Hamilton solo dandogli una monoposto decisamente superiore. Erano mesi di lotte interne, di divisioni tra Arrivabene e Binotto, di una presidenza poco presente e un nuovo ad come Louis Camilleri ancora troppo pesce fuor d’acqua.
Ma una volta esplosa la stella Leclerc, la Ferrari ha capito di aver trovato il tesoro, il ragazzo su cui puntare tutte le fiches. Rinnovandogli il contratto fino al 2024 lo ha fatto capire al mondo. Ma anche a Vettel che si è trovato sul tavolo un contratto annuale a una cifra più che dimezzata rispetto all’attuale, ma soprattutto la sottointesa volontà di trasformarlo in numero 2. Da Don Chisciotte a Sancho Panza in un rapido cambio sequenza. “In questo sport per riuscire ad ottenere il massimo bisogna essere in perfetta sintonia – ha dichiarato – ed io e la squadra abbiamo realizzato che non esiste più una volontà comune di proseguire insieme oltre la fine di questo campionato. In questa comune decisione non entrano in alcun modo in gioco aspetti economici: non è il mio modo di ragionare quando si fanno certe scelte e non lo sarà mai”. Non è stato un problema di denari, ma di ruoli. Non di moneta, ma di orgoglio. L’impressione è che Seb oggi come oggi non abbia molta voglia di ricominciare con un team che non può puntare al mondiale. Comprensibile. Meglio starsene a casa con tre bimbi piccoli. A lui la popolarità non è mai interessata come dimostra la sua assenza dai social.
La Ferrari ora è tutta nelle mani di un ventiduenne sfrontato e simpatico che però finora ha vinto solo due gran premi. Avrà tutta la pressione addosso perché chiunque arriverà al posto di Vettel (Carlos Sainz jr è il grande favorito) sarà lì a fargli da spalla, non da alternativa come avrebbe potuto fare un quattro volte campione. È una scelta pericolosa ma allo stesso tempo affascinante che riconduce un po’ alle origini, quando Enzo Ferrari voleva vincere inventandosi i piloti e non ingaggiando campioni affermati. Così nacquero le leggende di Villeneuve e di Lauda. Così potrebbe nascere quella di Charles Leclerc.
Il Foglio sportivo - In corpore sano