il foglio sportivo
Ho imparato guardando i più forti
Così il futuro ct della Nazionale di pallavolo “spiava” Velasco, l’uomo che avrebbe cambiato lo sport italiano
La squadra che sogna, faceva sognare. Faceva sognare anche un ragazzo di vent’anni che si avvicinava al mondo della pallavolo e leggeva, dentro lo sguardo di un gruppo di atleti fuori dal comune e del loro allenatore, non solo l’incipit della storia di una delle Nazionali più straordinarie dello sport di questo paese, ma anche una sorta di incipit della propria storia personale.
Perché quel ragazzo ventenne che sognava insieme a quella squadra, ero io.
Anzi, sono io.
Sono io che nel 1990 prendo e decido di andare a Merano in vacanza, perché lì è in ritiro la Nazionale maschile di pallavolo di Julio Velasco, diventata a sorpresa campione d’Europa l’anno precedente, che sta preparando i Mondiali di ottobre, in Brasile. Merano è un posto splendido per passare le vacanze, ma io vivo appollaiato sulle tribune del palazzetto dello sport. Passo tutto il mio tempo lì, arrivo prima della squadra, vado via quando l’ultimo degli atleti finisce l’allungamento e va a fare la doccia. Riesco perfino a intrufolarmi in sala pesi, qualche volta, e non sono mai disarmato: filmo tutto quello che posso filmare (siamo ancora ai tempi delle telecamere con le cassette vhs, è un lavoro che richiede una certa fisicità!), scrivo tutto quello che vedo. Scrivo anche quanto tempo durano le pause per bere, quanti minuti dura l’allungamento, come sono divise le squadre per il calcetto di riscaldamento, quanti addominali fa Lorenzo Bernardi, quanti dorsali Andrea Lucchetta. Praticamente stenografo ossessivamente ogni istante di quelle sedute di allenamento, come se il segreto potesse essere nascosto in qualsiasi dettaglio. Io sono lì per scovarlo, quel segreto. Mi ricordo ancora come se fosse oggi (e non ho il minimo timore di vergognarmi a raccontarlo) di quando Julio Velasco durante un esercizio che prevedeva l’utilizzo di un numero decisamente importante di palloni che stava mandando in crisi i polmoni del suo staff, guardò in tribuna e disse: “Ehi, ti dispiace venire giù a darci una mano?”.
Mi dispiace? Eccome se vengo giù a darvi una mano a raccattare palloni, Julio. Vengo anche ad asciugare con le mani il sudore sul parquet, se me lo chiedi. Io giù ci voglio rimanere sempre, qualunque cosa debba fare.
Ci ripenso oggi, trenta anni tondi dopo. Trent’anni durante i quali sono diventato allenatore di tanti club in serie A1, ho avuto la possibilità di avere in palestra alcuni dei campioni di quel gruppo irripetibile. Trent’anni in cui mi è successo più volte di incontrare Julio Velasco da avversario e poi di aver allenato proprio quella squadra lì, la Nazionale italiana maschile di pallavolo e di averci anche vinto una medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici.
Chi lo sapeva trent’anni fa? Chi l’avrebbe immaginato?
Quelle esperienze hanno segnato anche il mio modo di trattare colleghi giovani, ragazzi che sognavano di fare l’allenatore e venivano a vedere la mia Nazionale, ovunque fossimo. Ho sempre rivisto in quei ragazzi me stesso e ho sempre cercato di trattarli come io avrei voluto essere trattato. Perché, ripensandoci, non sono stato esatto in quel passaggio circa il mio non vergognarmi di raccontare quelle sensazioni, diciamo così, tardo-adolescenziali. È qualcosa di più ed è più onesto dire che ne sono proprio profondamente orgoglioso e che darei qualunque cosa per poter tornare a quell’estate del 1990, non (solo) per avere trent’anni in meno, ma per risentire quelle emozioni, rivivere quell’atmosfera, rivedere quello spettacolo, risognare quei sogni. Darei qualunque cosa per risentire il battito del cuore accelerare a quel: “Ehi, ti dispiace venire giù a darci una mano?”.
Era il clima, la cultura che si stava generando, la sensazione di essere di fronte a qualcosa di irripetibile, quel senso di grandezza e di volontà di andare a conquistare il mondo, quello che si respirava. Non che fosse tutto tranquillo, per l’amor di Dio. Ho assistito a liti furibonde, ad atleti che uscendo dal palazzetto, devastati dalla fatica, maledicevano l’allenatore, lo staff tecnico o la pallavolo stessa così come si maledicono quelle situazioni che sono molto esigenti con noi, ma che sappiamo stanno tirando fuori da noi tutte le risorse che abbiamo. Ed è una sensazione terribile e fantastica.
L’atmosfera che si respirava in quel palazzetto stava cambiando la pallavolo, lo sport italiano, la figura e il ruolo stesso dell’allenatore. Tutto questo, e molto di più, emerge chiaramente nel libro di Giuseppe Pastore, La squadra che sogna. Storia dell’Italia di Julio Velasco, la Nazionale di pallavolo più forte di sempre (66thand2nd editore, 2020).
Partiamo dal sottotitolo, quell’Italia di Julio Velasco: esiste un prima e un dopo rispetto all’arrivo dell’allenatore argentino in Italia e non è un tema cronologico. Il “prima” era fatto di tecnici e ottimi istruttori, persone in grado di trasmettere competenze. Nessuno si offenda, non voglio generalizzare, certo c’era stata qualche figura atipica, soprattutto nel calcio. Penso ad allenatori come Helenio Herrera, Nereo Rocco, per i più romantici Manlio Scopigno, ma l’arrivo di Velasco alla Nazionale italiana di pallavolo (e naturalmente i suoi successi, altrimenti tutto sarebbe rimasto come prima) ebbe due effetti collaterali: il primo fu quello di modificare completamente il ruolo dell’allenatore e il modo di essere inteso dai rispettivi presidenti di club o di Federazioni. A valle degli anni di Velasco in azzurro si iniziarono a vedere (almeno in Italia, perché in alcuni pezzi di mondo quella cosa già succedeva) coach capaci di occuparsi di programmazione in modo molto più ampio e trasversale, di organizzazione societaria, di costruire staff con professionalità molto specifiche, di gestire competenze non solo fisiche e tecniche, ma anche psicologiche e mentali dei propri atleti, di intervenire su argomenti e contesti non necessariamente relativi solo al campo di gioco, di esprimere opinioni perfino sulla gestione dei budget.
Il secondo effetto post-Velasco fu una luce e un’attenzione mai vista prima su quegli sport, soprattutto di squadra, che tutti definivano “minori”. Il basket, la pallanuoto, il rugby così come quelle figure di allenatori-pensanti come Gian Paolo Montali, Ettore Messina, Ratko Rudic, Sandro Campagna devono riconoscere a Julio Velasco di aver aperto una strada, scardinato un muro, cambiato un paradigma. Per essere onesti intellettualmente (e io voglio esserlo, proprio perché ho fatto l’allenatore per tanti anni), Velasco è stata la fortuna di quel gruppo di giocatori, esattamente come quel gruppo di giocatori è stata la fortuna di Velasco. Quel circolo virtuoso che si è innescato, forse irripetibile, ha generato un effetto che si potrebbe definire win-win-win. Ne hanno trovato giovamento i singoli, la squadra e lo sport italiano intero. E questo racconto tridimensionale, singolo-squadra-paese emerge dalle parole di Giuseppe Pastore, che nei suoi capitoli (tutti intitolati con il numero dell’anno di riferimento, dal 1989 al 1996, tranne uno che si intitola, guarda un po’, Julio Velasco). Una ricostruzione storica, di cronaca e di colore, uno spaccato di vita di quella squadra e, di riflesso, di chi quella squadra la guardava dagli spalti. Un ritratto vero, per nulla idealizzato. C’è traccia dei momenti belli come di quelli brutti, di felicità e di tensioni, di abbracci e di liti, di trionfi e di difficoltà. Le ultime dieci pagine del libro sono dedicate alla sconfitta più dolorosa di tutte, quella nella finale dei Giochi Olimpici di Atlanta, 1996. Ogni parola di quelle dieci pagine, per chi ha amato la pallavolo e la maglia azzurra, è un coltello che riapre una cicatrice, è un gigantesco esercizio psicoterapeutico che prevede la ricostruzione di un dolore, minuto per minuto. Ci si ritrova sdraiati sul lettino di uno psicoanalista e più si legge più fa male. È un flusso di memoria che chiude il libro, chiude l’avventura con la Nazionale di Bernardi, Cantagalli, Bracci, Tofoli, Zorzi, chiude la storia di quella squadra, chiude otto anni di vita loro e nostra.
Chiudo il libro a pag. 197 e riparto dall’inizio, da quella mia estate del 1990, a Merano.
Penso a quell’atmosfera, quella squadra, a quello che ha significato per me e a quanto mi ha, letteralmente, cambiato la vita. Penso a quanto quel gruppo di uomini abbia determinato quello che ho deciso di fare e di essere.
Riapro il libro e rileggo nelle ultime righe l’aforisma che Giuseppe Pastore sceglie per chiudere con una specie di romantico omaggio alle due sconfitte olimpiche di quella squadra quasi imbattibile. È una frase di Karl Kraus, rivolta a chissà quale donna dal gran fascino: “Per essere perfetta le mancava solo un difetto”.
Che meravigliose vite difettose, quelle che abbiamo vissuto.