Senza di lui non ci sarebbe Charles Leclerc. Nessuno può togliere a Nicolas Todt, figlio di tanto padre e 42enne manager di piloti, il merito di aver aiutato il “predestinato” a proseguire la sua carriera quando era rimasto senza soldi e non era ancora nessuno. “Firmai il mio primo accordo con Charles quando aveva 14 anni. Avrebbe dovuto smettere di correre con i kart perché aveva finito i soldi, ma decisi di aiutarlo”, ricorda, ora che tutti vorrebbero essere al suo posto. Qualcuno racconta che Nicolas Todt sia l’anima nera di Maranello, l’uomo che manovra nell’ombra perché tutto venga deciso e disposto per favorire il suo protetto. Di una cosa possiamo essere certi, il giovane Todt sa bene come funzionano le cose in Ferrari. Frequenta l’ambiente da quando era un ragazzino e accompagnava papà ai Gran Premi. La figlia di Berger e il figlio di Montezemolo flirtavano pulendo le gomme nel paddock, lui studiava. Non per diventare pilota, un’ambizione che non ha mai avuto, ma per vivere occupandosi di corse. Si è laureato, ha conseguito un master in management dalla Toulouse Business School, poi è diventato co-proprietario della scuderia ART Grand Prix e ha cominciato a fare la carriera di manager dei piloti. Quando nel 2006 fece promuovere Felipe Massa dalla Sauber alla Ferrari in molti pensarono ad Alessandro Moggi. Portava un suo pilota in una squadra dove regnava incontrastato suo padre. A pensar male non si faceva peccato. Dopo 8 stagioni, 139 gare e 11 vittorie con la Ferrari, Felipe Massa, arrivato come raccomandato, se ne è andato da vicecampione del mondo. Il giovane Todt aveva fatto un affare, ma lo aveva fatto anche la Ferrari. Quando nel 2009 in Ungheria, Felipe rischia la vista e la vita per una molla trasformata in proiettile, il giovane Todt si trova per la prima volta faccia a faccia con il dolore e la paura. Il manager deve trasformarsi in psicologo. Ancora più dura e dolorosa è stata l’esperienza con Jules Bianchi, la giovane promessa con un contratto Ferrari in tasca, rimasto in coma più di 9 mesi dal Gran Premio del Giappone 2014 al 17 luglio dell’anno successivo. Un paio di giorni prima dell’assurdo incidente di Suzuka (la Marussia finì contro un trattore a bordo pista) ero nell’ufficio di Jean Todt in Place de La Concorde per un’intervista. Alla mia domanda: crede in Dio? Il presidente della Fia rispose: “Non credo in Dio, ma da quando è successo l’incidente a Michael ho cominciato a pregare”. Non so se Nicolas crede in Dio, ma di certo in quei nove mesi deve aver pregato anche lui, oltre a esser rimasto vicinissimo alla famiglia di Jules. Perdere un pilota che era diventato un amico, perdere un uomo attorno al quale avevi costruito un progetto. Nicolas Todt deve essersi sentito come quel giovane manager che nel 1970 a Monza vide morire il suo protetto, Jochen Rindt, destinato a diventare il primo campione del mondo alla memoria in 70 anni di storia della Formula 1. Quel giovane manager era Bernie Ecclestone.
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