Da piccolo andava al negozio di nonno Olindo, che vendeva lo zucchero sfuso e anche il caffè, dappertutto c’era odore di pane fresco e nei giorni di gloria Riccardo Bigon finiva dietro al bancone o magari nel retrobottega, che per i bambini è sempre un posto pieno di cose da inventare e da scoprire. “A mio nonno ho rubato la semplicità. Nella mia vita ho incontrato tante persone, tanti personaggi, a tutti ho cercato di rubare il lato positivo, ma io fondamentalmente faccio ancora fatica a non vedermi come un casoin, a non ragionare come avrebbe fatto mio nonno al negozio di alimentari”. E poi a casa c’era papà Alberto, il calciatore, “non un dottore o un avvocato”, ma l’emblema di un calcio romantico, che forse non esiste neanche più, l’uomo che faceva i gol nel Milan o vinceva i trofei con il Napoli quando allenava Maradona. “Sono cresciuto con la mentalità del classico lavoratore veneto: lavora e fai, tira su le maniche e fai. A me e mia mamma Valeria non ci è mai mancato nulla, ma non abbiamo mai avuto la Ferrari, papà girava con una Regata, al massimo col Golf. La mia prima auto fu una Fiat Uno, me la comprò papà. Il valore dei soldi l’ho sempre avuto e l’ho tenuto stretto, il telefono lo cambio quando si rompe, non sono mai entrato nel consumismo. E il giro di soldi che vedo nel nostro mondo, nel mondo del calcio, di cui in parte usufruisco anch’io, mi tocca dentro”.
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