il foglio sportivo
Il Mondiale che ha segnato per sempre la storia del calcio in Italia
Le notti magiche dell’estate 1990, gli sprechi sulle infrastrutture, gli Azzurri meravigliosamente incompiuti di Azeglio Vicini e il mondo che stava cambiando
Con l’algoritmo di Gravina l’Italia avrebbe vinto il Mondiale trent’anni fa. Ma a Italia ‘90 si giocava ancora a calcio con stadi strapieni di passione. Quelle notti erano davvero magiche e l’estate italiana cominciò l’8 giugno con una sorpresona che nessuno schema sistematico di calcolo avrebbe mai potuto ipotizzare. Il bello del calcio non erano solo le gambe sgabellate di Alba Parietti. Galagol inaugurò un’epoca televisiva in cui ogni tanto oltre le gambe c’è di più. Quel Mondiale ci ha lasciato il dolce ricordo di un’Italia bellissima, forse la più bella di sempre, ma anche il ricordo bruciante di una delusione profonda, perché clamorosamente immeritata.
“L’Argentina è finalista in Coppa del Mondo… Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”, chiuse la sua telecronaca napoletana Bruno Pizzul.
Italia ’90 ha viaggiato in dodici città e ci ha lasciato stadi rimodernati, ma anche irrimediabilmente imbruttiti. Per non parlare di quelli diventati tristi cattedrali nel deserto, come il San Nicola di Bari pur firmato da Renzo Piano e il Delle Alpi poi fortunatamente abbattuto a caro prezzo per regalare spazio e gloria allo Juventus Stadium, trasformatosi in Allianz grazie a uno sponsor lungimirante. Il terzo anello di San Siro che è diventato il simbolo dello sperpero inutile, il Ferraris di Genova ridisegnato da una grande firma dell’architettura come Vittorio Gregotti ci ha lasciato tribune coperte, ma anche qualche posto da cui era impossibile vedere il campo. Per non parlare di ponti, stazioni, alberghi inaugurati a Mondiali finiti.
È stato l’ultimo Mondiale dell’Unione Sovietica che poi si è frastagliata, della Germania Ovest che, con un anno di ritardo dalla caduta del Muro, si è unita a quella dell’Est, della Cecoslovacchia che quattro anni dopo non si qualificò e poi si spezzò in due e della Jugoslavia che nel 1992 fu esclusa dagli Europei per colpa di una violenta e disumana guerra fratricida. Ma è stato anche il primo Mondiale degli Emirati Arabi, del Costa Rica di Bora Milutinovic e pure dell’Irlanda di Jack Charlton. Poteva diventare il Mondiale dell’Italia di Roby Baggio, dell’Argentina di Maradona, dell’Olanda di Gullit e Van Basten campione d’Europa in carica o di altre stelle annunciate come Gazza Gascoigne, Stojkovic, Valderrama. Non di Boban, squalificato per il famoso calcione a un poliziotto serbo diventato poi un simbolo. Il Mondiale italiano è invece finito nelle noiose mani dei tedeschi dopo esser passato in quelle di uomini sorprendenti come il nostro Totò Schillaci, il mitico Roger Milla (di cui Enrico Brizzi vi ha raccontato tutto su queste pagine) o della meteora camerunese François Omam-Biyik che dopo esser volato nel cielo di San Siro per infilzare l’Argentina nella gara inaugurale, è pure atterrato, senza lasciare traccia, nella Samp. Ma anche del portiere argentino Goycochea, un para rigori straordinario che, purtroppo per noi, neutralizzò anche i tiri dal dischetto di Donadoni e Serena, dopo aver bloccato nei quarti quelli degli Jugoslavi Brnović e Hadžibegić, senza poi scrivere altre pagine nobili nel calcio che conta, se non per aver partecipato con Diego Maradona a La noche del Diez.
La mascotte, un calciatore tridimensionale, chiamato Ciao dopo un referendum nazionale per sceglierne il nome (era in ballottaggio con Bimbo, Dribbly, Amico, Beniamino), non sarà stata bellissima, ma non è certo passata inosservata fino a che un esemplare gigante non fu colpevolmente dimenticato fuori dallo Stadio di San Siro con grande dispiacere del suo creatore Lucio Boscardin che raccontò di aver avuto l’ispirazione guardando un semaforo.
Un altro simbolo degli sprechi di quell’edizione del Mondiale, come il Terminal Ostiense, abbandonato per vent’anni prima di essere recuperato da Oscar Farinetti che l’ha trasformato nella sede romana di Eataly. “Abbiamo il sogno di fare del Mondiale 1990 una vetrina dell’Italia tecnologica e industriale proiettata verso il Duemila”, disse nella sua prima conferenza stampa un giovane Luca Cordero di Montezemolo, presidente del Comitato Organizzatore dei Mondiali a 39 anni, prima di diventare il presidente più vincente della storia della Ferrari e della Formula 1. A chi lo accusa di sprechi e sperperi di denaro risponde duro: “Mi arrabbio quando qualcuno mi accusa degli scempi di Italia ’90, dove avevamo responsabilità solo per i funzionamenti sportivi, non avevamo né ruoli, né responsabilità di fare infrastrutture. Se poi qualche sindaco, assessore o presidente di Regione ha fatto iniziative fuori dal progetto di Italia ’90, se ne sarà assunto la responsabilità”. Nessuno si è assunto davvero la responsabilità, ma alla fine, quando sono stati fatti i conti ne è venuto fuori un costo complessivo di 7.230 miliardi di lire, dei quali oltre 6.000 provenienti dalle casse dello Stato, corrispondenti a circa 3,74 miliardi di euro. Non un esempio di buona amministrazione, anche se dal punto di vista dell’organizzazione sportiva tutto funzionò, tranne il risultato finale. Quel grande spreco di soldi portò anche a due proposte per l’apertura di un’inchiesta parlamentare su volontà del deputato Raffaele Costa, nel maggio 1992, e in seguito del senatore Athos De Luca nel maggio 1999, senza arrivare però ad alcun esito, come spesso capita dalle nostre parti. “Un’inchiesta della magistratura romana sugli sprechi di Italia ’90 – si legge nella relazione dell’onorevole De Luca – conclusasi con l’archiviazione di accuse di corruzione e abuso d’ufficio, lascia aperto il nodo delle responsabilità politiche e amministrative per tanti monumenti allo spreco e alla dissipazione del denaro di contribuenti”.
In quegli anni la nostra Serie A era ancora il campionato più bello del mondo. Poco prima del Mondiale il Milan aveva vinto la Champions e la Samp fatto sua la Coppa delle Coppe. C’erano presidenti mecenati e i migliori stranieri facevano a gara per venire da noi. Anche se proprio contro quegli stranieri Gianni Brera non scrisse parole dolci commentando quel Mondiale: “L’Italia è stata in certo modo beffata per propria colpa. I suoi meriti vanno ricercati nella organizzazione prima ancora che nella resa tecnico-agonistica, inficiata da errori di conduzione e da lacune facilmente spiegabili con la politica autolesionistica, e in gran parte amorale, delle continue importazioni dall’estero”. Non si può non avere nostalgia di quel calcio ricco di stelle più che di bidoni, nonostante ancora oggi si senta il peso di certi investimenti folli che aumentarono esageratamente le ricchezze dei protagonisti senza, pensare a strutture, infrastrutture e al futuro. Quelle notti furono davvero magiche e quell’inno cantato (un po’ controvoglia a dire il vero) da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato su musica di un tre volte premio Oscar come Giorgio Moroder è un ritornello che continua a risuonarci in testa, mentre aspettiamo un gol. E tornerà di moda adesso che ci attende una lunga estate italiana, speriamo piena di gol e vuota di virus, anche se parlare di notti magiche in stadi forzatamente deserti è un equilibrismo un po’ sfacciato.
Quel Mondiale italiano si chiuse con un rigore vincente di Brehme a 6 minuti dai supplementari in una partitaccia che indusse Gianni Brera a scrivere: “Mai assistito a uno strazio paragonabile a quello di Germania-Argentina”. Di gol ne furono segnati davvero pochini, solo 115 in 52 partite con la media (2,21) più bassa fra tutte le edizioni del campionato del mondo disputate fino al 2018. Ma a noi italiani lascia soprattutto la sensazione dell’occasione perduta e non soltanto per quell’uscita sciagurata di Walter Zenga su Caniggia. E comunque non è giusto dare tutta la colpa all’uomo ragno: lo hanno già ucciso nelle canzonette. L’attimo ci è fuggito via nella notte del 3 luglio in un San Paolo dove non tutti tifavano Italia e ci pensiamo ancora nonostante dopo sia arrivata Germania 2006. Ci pensano quei ragazzi che il Mondiale non lo hanno più vinto (Bergomi, Baresi e Vierchowod lo avevano già conquistato in Spagna). Una generazione diventata adulta attorno ad Azeglio Vicini, un papà vestito da c.t.: Mancini e Vialli, ma anche Ancelotti e Giannini e il Roby Baggio che aveva appena tradito Firenze. L’amarezza di una bella Italia non arrivata al traguardo. La paura che il bilancio economico di quell’organizzazione tenesse lontane da casa nostra altre manifestazioni sportive di quella portata. E dal punto di vista calcistico è stato proprio così, tanto che molti stadi restano ancora quelli, magari incerottati e rinfrescati per resistere al tempo. Poi sono arrivati i Giochi di Torino 2006 e adesso quelli di Milano e Cortina 2026, ma la grande fuga politica da Roma 2024 è stata innescata proprio da quel ricordo. Il 1990 nel mondo fu l’anno della nascita della Banca Europea a Parigi, della libertà di Mandela, del Nobel della Pace a Gorbaciov. Cominciarono a circolare i primi cellulari e la parola multimedialità fece la sua apparizione. L’Italia fu uno dei primi paesi ad avere un numero unico per le emergenze: nacque il 118. Quella sera a Napoli avremmo dovuto chiamarlo. E forse non è un caso che la canzone più suonata dalle radio in quel 1990 fu “Uomini soli”.
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