La stravagante allegoria di un mondo dominato da quelli con la pelle nera
Riparte la Nba: fino a ottobre tutti a DisneyWorld
Nell’America ribaltata di queste settimane, ciò che bolle in pentola nell’Nba, il campionato professionistico di basket, appare legato a doppio filo con gli eventi e destinato ad assumere un carattere rappresentativo, addirittura simbolico nell’accidentato percorso di ritorno a un’accettabile, presentabile normalità, che la nazione si augura di conseguire il prima possibile. L’affare George Floyd e quello che ne è seguito ha chiarito una cosa: la questione razziale, a dispetto di quanto sancito a suo tempo dalla Corte Suprema, non è affatto superata, anzi costituisce un’infezione che attacca lo stato di salute dell’America nei gangli vitali. Tutto al più ci si può augurare che quanto sta accadendo in questi giorni ponga sul tavolo in modo permanente – in primo luogo nel dibattito tra le posizioni in vista del voto di novembre – l’irrisolta questione di una seria riconciliazione razziale e di un credibile principio di uguaglianza, punti senza i quali, ormai, gli Stati Uniti saranno costretti a dichiarare il definitivo fallimento etico davanti al mondo.
Del resto, allorché le piazze si svuoteranno delle manifestazioni, sarà necessario elaborare un piano rappresentativo della questione, e lo sport americano, prediletto spettacolo nazionale, si presenta come uno dei territori meglio predisposti a una spericolata traslazione dalla sociopolitica alla condivisione popolare di un problema che, volenti o nolenti, gli americani dovranno affrontare insieme. La sublimazione della rivolta, ambientata nel mondo dei canestri, collimerà in modo interessante col dispiegarsi del confronto politico 2020, ben più di tante anacronistiche manifestazioni di piazza con cui negli ultimi giorni si è provato a dar forma alla protesta. Qui tutto si tradurrà in televisione e web, sotto l’ombrello degli sponsor, ospiti di una struttura che è l’icona del postmoderno. L’Nba ha infatti annunciato che il suo campionato ripartirà, a partire dal 31 luglio fino al 12 ottobre, tenendosi interamente negli impianti predisposti all’interno di DisneyWorld, a Orlando, Florida, dove convergeranno le 22 squadre ancora coinvolte (restano escluse le 8 peggiori, matematicamente fuori portata per la fase successiva dei playoff), dando vita alla capitale momentanea mondiale dello sport, animando una bolla protetta all’interno della quale vivranno, secondo le norme di sicurezza, tutti gli atleti e gli staff dei team. Tra qualche giorno le formazioni convergeranno verso il parco a tema Disney e cominceranno la preparazione e il pubblico comincerà a guardare con passione verso quella esplosiva centrale di spettacolo. I media daranno un enorme spazio all’iniziativa, versione futuribile dello scontro finale tra il Grande paese e il Grande virus – prima regola: lo show va avanti, perché la società industriale dello spettacolo non si sottomette all’idea di ammalarsi – e davanti a taccuini e telecamere gli atleti più rappresentativi e l’indotto di celebrity che li circonda, cominceranno a parlare.
Sarà una stravagante allegoria di un mondo dominato da quelli con la pelle nera. E dal momento che in parallelo comincerà la fase finale della campagna per le presidenziali, DisneyWorld diventerà la colossale tribuna delle ragioni degli afroamericani (schiacciante maggioranza tra quelli che contano nella pallacanestro) e alcuni campioni avranno l’opportunità di vestire i panni dei leader sociali (lo faranno? La tentazione non si scontra con il concetto di professionismo? E’ pur vero che la contingenza è eccezionale, il desiderio di lasciare un segno è forte, e il potere detenuto da alcuni atleti è pressoché sconfinato). Era fine Novecento quando si teorizzava con fatalismo che lo sport professionistico fosse diventato il principale obiettivo di riscatto di un giovane afroamericano alle prese col proprio futuro: diventare ricco e famoso attraverso un pallone, una palla ovale, o una pallina da baseball, magari poi occupandosi di sostenere la famiglia, il quartiere, la comunità. Ora la maledizione del Covid e la crisi dei rapporti interrazziali generati dalle violenze della Polizia, hanno provocato questa campagna elettorale parallela.
I giocatori, gli allenatori, quelli che contano nel giro, sanno che i riflettori saranno sempre accesi su DisneyWorld e che il mondo guarderà. Saranno in tanti ad aver voglia di parlare, andando oltre le prodezze a canestro. E quello che dirà LeBron James avrà lo stesso peso di ciò che va dicendo Barack Obama. E proprio LeBron ha già dato fuoco alle polveri scrivendo il 27 maggio su Instagram “Capite adesso? O ancora non è chiaro per voi?”. All’indomani dell’ammazzamento di Minneapolis, Stephen Jackson, ex stella dei San Antonio Spurs e fratello di sangue di George Floyd, sarà a DisneyWorld a far sentire la sua voce. E Steve Kerr, l’allenatore dei Golden State Warriors, già esclusi dalla finale di campionato, allorché con ogni probabilità vestirà i panni del commentatore non stara zitto sulla protesta, come del resto ha già fatto: “Questo è un omicidio. Disgustoso. Seriamente, cosa cacchio c’è di sbagliato negli Usa?”. E ogni giorno, a portata di microfono ci sarà Michael Jordan. La storia della sua carriera raccontata in dieci episodi dalla serie Netflix “The Last Dance” è un hit internazionale. Le polemiche intorno alla veridicità del racconto e ai condizionamenti messi in atto dallo stesso ex atleta e dalla Nike (di cui rappresenta il principale asset), fanno discutere: perché non si è raccontata la verità su Jordan incallito scommettitore, sulle vessazioni a cui sottoponeva i compagni di squadra e sul suo disimpegno verso la causa afroamericana? Ma adesso il 57enne atleta più famoso del mondo potrà approfittare dell’occasione per rischiarare i coni d’ombra della sua reputazione. Stavolta parlerà chiaro e proverà a diventare un eroe dei neri di ieri e ma soprattutto di quelli di oggi. Intanto s’è fatto precedere dal tonante annuncio di una donazione da 100 milioni di dollari a sostegno delle battaglie civili degli afroamericani – i soldi andranno a una galassia di organizzazioni – una cifra che nessuno ha neanche pensato di sfiorare (il suo patrimonio personale supera i 2 miliardi). Stavolta vestirà i panni del nero che si è fatto da solo, come in passato, quando dichiarava che le sue scarpe le compravano anche i repubblicani, non ha avuto il coraggio di fare. Se Kobe Bryant morendo s’è guadagnato la santità e LeBron guiderà i colleghi a dare segno di consapevolezza sociale, Michael parlando farà più rumore di qualsiasi spot elettorale e muoverà più voti di mille discorsi. Ecco perché quello che sta per succedere a Orlando è importante per il futuro americano. Non conta chi vincerà il campionato: l’Nba ha involontariamente messo le basi per la più imponente convention dibattimentale su come ridare dignità alla nazione. Vedrete politici, leader e famosi ronzare come api nell’alveare di DisneyWorld. Si parlerà con chiarezza e il mondo ascolterà. Vuoi vedere che stavolta, tra una schiacciata e l’altra, la rivoluzione finirà per essere trasmessa in tv?
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