All'Azteca fu “solo una partita”
Italia-Germania 4-3 e i figli della guerra di fronte. Parlano i protagonisti
Ruda, Bassa Friulana. Inverno 1942-43: “Quando c’erano i bombardamenti andavamo a ripararci nelle trincee della guerra del 1915-18”, dice al Foglio sportivo Tarcisio Burgnich, classe 1939.
Pontremoli, Lunigiana, Toscana. Giugno 1944. “Avrò avuto cinque anni e mi ricordo che dalla finestra di casa vedevo gli aerei bombardare il ponte della ferrovia”. È il ricordo di Enrico Albertosi, classe 1939.
Lallio, provincia di Bergamo. Luglio 1944. Angelo Domenghini, classe 1941, non ha ricordi della guerra, “ma nell’osteria di mio padre si parlava di quando gli aerei alleati colpirono gli stabilimenti della Dalmine, che era vicinissima”.
Aselogna, frazione di Legnago, Bassa Veronese. Estate 1944. “Eravamo sfollati, tutta la nostra famiglia e quella dei miei zii, in una grande villa in campagna. Nella notte sentivo il rombo sordo di Pippo, il bimotore alleato che faceva incursioni notturne mitragliando le campagne”, commenta Pierluigi Cera, 1941.
Berlino, ultimi mesi del 1944. “Ci avevano fatto evacuare dalla nostra città, Düren, al confine con l’Olanda e il Lussemburgo. Eravamo alloggiati in una grande e vuota caserma a Berlino”. Karl-Heinz Scnhellinger, classe 1939, l’avevano messo a dormire in un letto a castello: “Da sopra, un altro bambino, forse per il freddo, forse per la paura, fece la pipì che piovve sul letto e su di me”.
Mantova. Primavera 1945. “Mio padre, operaio alle Cartiere Burgo, a fine turno, in bicicletta faceva il giro delle cascine nei dintorni per cercare un po’ di latte da portare a casa per me, che avevo poco più di un anno”, ricorda al Foglio sportivo Roberto Boninsegna, classe 1943.
Burgnich e Albertosi, Domenghini e Cera, Schnellinger e Boninsegna, e con loro gli altri “bambini”, italiani e tedeschi, Gianni Rivera (1943) e Sepp Maier (1944), Giacinto Facchetti (1942) e Jurgen Grabowski (1944), Gigi Riva (1944) e Wolfgang Overath (1943) sono figli della guerra, della Seconda guerra mondiale (poche le eccezioni, e tutte germaniche: Beckenbauer, Müller e Vogst, nati per pochi mesi nel dopoguerra).
Venticinque anni dopo la fine del conflitto, il 17 giugno 1970, alle ore 16, allo stadio Azteca di Città del Messico, quei “figli della guerra” si ritrovarono gli uni contro gli altri e ormai giovani uomini a contendersi, per fortuna solo a suon di gol, la vittoria in un’altra epica battaglia.
Per molti Italia-Germania, semifinale della Coppa del Mondo a Mexico 1970, non è stata semplicemente una partita di calcio: è stata el Partido del Siglo, “la Partita del Secolo”, come si legge nella targa affissa all’ingresso dello stadio messicano. “Lo sapevamo che ci attendeva un grande match” dicono tutti più o meno all’unisono. “Ma è stata esclusivamente una partita di calcio. Importante, certo. Come può essere importante una semifinale di Coppa del Mondo, che non capita tutti i giorni nella carriera di un calciatore. Grande concentrazione, determinazione e voglia di vincere, dunque. Ma il fatto di avere di fronte la Germania che un quarto di secolo prima era stata alleata e poi tragicamente nemica e occupante non rivestiva nessun significato storico”.
“Erano passati molti anni e per tutti era una vita nuova”, commenta Schnellinger. “Avevamo grande rispetto per i nostri avversari che erano fortissimi”, dice Boninsegna. “Ci divideva l’antagonismo… Erano pur sempre i ‘crucchi’, nostri avversari storici. Ma era solo sport”, precisa Cera. “Eravamo un gruppo molto unito, nonostante le polemiche sui giornali intorno alla formazione…”, assicura Burgnich. “Non ci siamo accorti subito dell’impresa compiuta, ma solo dopo aver letto i giornali che riportavano le notizie dei grandi festeggiamenti in Italia”, afferma Albertosi.
Se però a cinquant’anni da quel 17 giugno 1970 all’Azteca siamo ancora qui a celebrare quell’incontro significa che l’evento ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, e non solo sportiva, della nazione. O perlomeno in quella italiana, sempre alla ricerca di un collante identitario che provi a tenere insieme questo nostro scombiccherato Paese dalle molte anime e dagli ancor più numerosi interessi, o convenienze, “di parte”.
Tutti sanno di essere figli di quella guerra, di cui però in prima battuta, dicono di non avere ricordi biografici diretti per ovvie ragioni anagrafiche: “Eravamo troppo piccoli” è la prima risposta. Abbiamo invece visto come emergano lo stesso memorie, magari di seconda mano, che disegnano il quadro a sbalzo di una generazione che con quegli anni ha dovuto fare davvero i conti.
Mario Bertini è nato a Prato il 7 gennaio del 1944, quando alla fine della guerra mancava poco più di un anno. “No – ripete anche lui –, non mi ricordo nulla. So che la nostra famiglia non era sfollata, e continuavamo a vivere dietro al Duomo, in via Tintori. Ah, però, c’è una cosa… Quando ero piccino – ero l’ultimo di cinque fratelli – avevo un soprannome tutto mio: Rifugino, perché la mi’ mamma m’ha messo al mondo proprio in un rifugio antiaereo, durante un bombardamento”.
Di quella partita, Mario Bertini, cuore e polmoni di quella Nazionale, ricorda un’altra battaglia da “contraerea”: “Quel vecchiaccio di Uwe Seeler era più basso di me ma sulle palle alte era formidabile. Ce le siamo dette e suonate per tutto il match, ma alla fine però ci siamo scambiati la maglia”.
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