Buttare giù anche “Ciao”
A Italia ’90 perdemmo, fu lo specchio della crisi del paese. Raccontarla come se fosse andato tutto bene è un danno
Il burattino pinocchietto e tricolore “Ciao” resterà nella storia come una delle più brutte mascotte dei Mondiali di calcio. Del resto il design non era già più quello di una volta, e anche Un’estate italiana di Moroder-Bennato-Nannini, che è tornata a rintronarci nelle orecchie, non vale un Grazie Roma, se vogliamo stare agli inni patriottici. Mercoledì sera, nella grande cerimonia con pubblico virtuale officiata dalla Rai per la ripresa del calcio, la finale di Coppa Italia – annunciata con spot di droni sui monumenti della Capitale manco fossero gli Stati generali del calcio, e non una partita – è successo questo fatto, per molti increscioso, ma in realtà solo significativo: il cantante Sergio Sylvestre che doveva cantare, in una parodia del politicamente corretto, l’inno di Mameli si è impappinato sulle parole. Ma nemmeno i 22 sul prato davano l’impressione di essere in grado di aiutarlo. Per dire che la retorica nazionale, l’italianità spruzzata come un antivirus attraverso lo sport, è un pasticcio controproducente.
Il che ci rimanda a Italia ’90 e alla melassa mediatica che nei giorni scorsi ha innaffiato lo storico trentennale del debutto. Come se fosse una festa nazionale, una memoria da lucidare. E invece non lo è. A cominciare dal fatto che fu l’ultimo grande evento sportivo organizzato nel nostro paese: poi un vuoto di tre decenni.
E’ vero, figuriamoci: un paio di settimane fa stavamo tutti per morire di Covid e chiusi in casa, non c’erano manco le partite e il morale era sotto i tacchi. Qualsiasi cosa potesse distrarci, tirarci su, iniettarci una qualche forma di orgoglio anche farlocco faceva brodo, tra un bollettino e un Dpcm. Ma la verità è che la memoria falsata della nostra storia non aiuta, è come taroccare i dati sui tamponi. Sarebbe più utile raccontarsi com’era, quell’Italia del 1990, e capire che cosa davvero ha simboleggiato quel Mondiale che a leggerne oggi, almeno per chi non c’era, sembra che lo abbiamo vinto. Invece no.
Prima di tutto, lo abbiamo perso. Fuori ai rigori contro Maradona. Per un’uscita sconsiderata di Walterone Zenga che non fu mai perdonato, nel paese dei rancorosi che perdonerebbe pure la saponificatrice di Correggio. A farfalle, sopra la zazzera bionda di Caniggia, argentino dell’Atalanta che emozionava solo i bergamaschi. Ma soprattutto il grande evento, mascotte a parte. Quello che per il presidente del Comitato organizzatore, Franco Carraro, avrebbe dovuto essere “l’occasione più opportuna per dimostrare non solo le nostre capacità organizzative ma anche l’alto livello tecnologico raggiunto in tutti i settori della vita nazionale” e che fu invece un festival di pasticci, lo specchio del crepuscolo di una classe dirigente. Con i costi esplosi fin quasi a quattro miliardi di euro, le grandi opere diventate monumenti al Progetto ignoto. E gli stadi, ah gli stadi, l’ultima volta che si provò a fare e sistemare, ma si sa come finì. Il terzo anello di San Siro che non fece più crescere nemmeno l’erba; il Delle Alpi costato in doppio del previsto e oggi abbattuto. La copertura dell’Olimpico costata come se fosse di puro zaffiro. Intendiamoci, il punto non è rinfacciare colpe a nessuno, dopo trent’anni sarebbe come prendersela con Montanelli.
Ma bisogna ricordarsi cosa volevano rappresentare, quelle Notti magiche, e di che cosa invece furono il segno. Fu l’ultimo, mal gestito, para-statalizzato evento di un regime politico morente. Nel sistema di governo, di flusso dei soldi, e anche peggio di presa su un’opinione pubblica che già incarogniva. Si puntò sulla maglia azzurra come salvifico amuleto. Del resto era accaduto per Spagna 1982, il trionfo di Bearzot (e Pertini) aprì simbolicamente un decennio di buonumore dopo gli Anni di piombo. Con Italia ’90 andò male, calcio a parte. Era già l’Italia minata dal leghismo che sarebbe esploso poco dopo, e il tifo è sempre una spia. Degli Azzurri, al netto di tutto, importava poco, contava il particulare. La semifinale, a Milano, Olanda-Germania fu nient’altro che un derby: allo stadio e nelle strade gli italiani sventolavano le bandiere del Milan olandese e dell’Inter tedesca. In finale, Maradona fu fischiato fino all’ingiuria, fino alle lacrime. Perché l’Argentina ci aveva eliminato, e molto perché Maradona era Napoli, e mezza Italia voleva fischiare. C’era chi gufava gli olandesi, perché erano “roba di Berlusconi”.
Non c’è disastro politico peggiore di perdere un Mondiale apparecchiato in casa. Ma era un’Italia senza dèi, ci voleva un eroe e fu trovato nella meteora estiva di Totò Schillaci, che fece il suo e fu il capocannoniere. Ma al resto non bastava, doveva essere anche il solito emblema di un riscatto nazionale. Il ragazzo venuto dal sud, cuore fatica e occhi spiritati dentro alla telecamera. Come 10 anni prima Mennea. C’era, in quel di più, un troppo di simbolismo, forzato. La Sicilia di cui Totò portava il riscatto e il calore era in verità, nel paese reale, quella scossa dalle guerre di mafia e che già si preparava agli attentati. Invece di celebrare Italia ’90 come fosse stata una vittoria e spalmare un po’ di zucchero sulle ferite, bisognerebbe ricordare come eravamo e perché non ci siamo mossi poi molto da lì. E’ successo, in questi giorni, anche per il cinquantennale di Italia-Germania 4-3, “la più bella partita del mondo” (che poi, boh). Certo, per i boomer che c’erano fu un’emozione incredibile, e ricordarsela è come ricordarsi il primo amore. Ma a chi non c’era, si dovrebbe pur dire che noi, quel Mondiale, lo abbiamo perso. Il Brasile di Pelè ce le suonò di santa ragione. Fischio finale.