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La birra scorre a fiumi nei dintorni di Anfield

Jack O'Malley

La squadra più bella d’Inghilterra vince il campionato, Klopp piange e Liverpool si risveglia felice

[Anticipiamo un articolo del numero del Foglio Sportivo in edicola domani e domenica. L'edizione di sabato 27 e domenica 28 giugno la potete scaricare qui dalle 23,30 di venerdì 26 giugno]

 


 

Adesso che è successo davvero, adesso che il Liverpool è campione d’Inghilterra trent’anni dopo l’ultima volta – dove eravate, voi, trent’anni fa? Quasi tutti i giocatori dei Reds non erano neppure nati – adesso che la retorica può scorrere a fiumi come la birra (poche squadre al mondo attirano epici luoghi comuni come il Liverpool: this is Anfield, you’ll never walk alone, Red or dead…), adesso che non c’è più nessuna maledizione, e a Manchester stanno vivendo come una ferita mortale questo titolo vinto dai nemici più odiati, Jürgen Klopp può essere messo accanto a Bill Shankly, Bob Paisley e Joe Fagan – gli allenatori che hanno vinto tutto con i Reds – senza timore di essere blasfemi.

 

Arrivato cinque anni fa a Liverpool come allenatore bravo e moderno, sì, ma con l’etichetta di manager incapace di vincere le finali, Klopp è diventato una cosa sola con la città, i tifosi, lo stadio, i giocatori. Ha però dovuto aspettare quattro anni prima di vincere un trofeo, la Champions League dell’anno scorso: un’eternità nel calcio di oggi che tutto mastica, divora e vomita. Quattro anni in cui la simbiosi con il Liverpool è diventata gioco, intelligenza, tattica, preparazione, studio ma anche febbre, grinta, follia, sudore e pianto (vi avevo avvisati sulla retorica).

 

Sei anni fa sulla stessa panchina c’era Brendan Rodgers, e il Manchester City era già l’avversario da battere. Quando sembrava che finalmente tutto potesse tornare a posto, e i Reds vincere il campionato 24 anni dopo, il capitano più amato, Gerrard, era scivolato sul pallone a centrocampo, contro il Chelsea, facendo partire un contropiede che avrebbe significato sconfitta, depressione e sorpasso del City. Lo scorso anno Klopp se l’è giocata fino all’ultima giornata, quando è stato ancora il City a bruciare i sogni di Anfield. Vinceremo l’anno prossimo, saranno trent’anni e sarà ancora più bello, si dicevano i tifosi per consolarsi. Così è stato, in una stagione in cui la vittoria finale non è mai stata neppure lontanamente in discussione. Ma è pur sempre il Liverpool, non poteva filare tutto liscio: il virus , il lockdown, le morti, la Premier League sospesa, l’incubo che tutto venisse annullato, o che il titolo di campioni fosse consegnato in segreteria. Certo, non ci sarà l’urlo di Anfield, le lacrime sotto la Kop, le sciarpate e i brividi nello stadio più bello del mondo (qualcuno ha già pigramente parlato di “beffa del destino” da qualche parte, scommetto). È stato ancora il Chelsea a decidere, come nel 2014: ha battuto il Manchester City giovedì sera, e a quel punto la distanza dai Reds è diventata irrecuperabile per la squadra di Guardiola. Liverpool campione d’Inghilterra, e Klopp che scoppia a piangere in diretta tv, ringrazia tutti, fa dediche, piange ancora, tenta un “festeggiate nel vostro cuore e nella vostra testa, restate a casa”, ma mentre lo dice sa che questo suo invito a non creare assembramenti non potrà essere preso sul serio. Il calcio è ancora uno dei pochi luoghi in cui la vita contempla il rischio e lo sfida. Fanculo i distanziamenti, se il prossimo è fra altri trent’anni sarò già morto di noia o di vecchiaia, hanno pensato i tifosi prima di ritrovarsi in strada a cantare, abbracciarsi, bere e accendere fumogeni. Roba da mandare in tilt qualunque app di tracciamento. Ed è giusto così. Anche se tutti sappiamo che questo titolo è il primo di una serie che il Liverpool di Jürgen Klopp vincerà nei prossimi anni. Confermando ancora una volta una grande legge del calcio inglese: basta avere pazienza, e aspettare. Quattro o trent’anni.

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