“Il calciomercato è globale o non è”. Il mondo secondo Alessandro Moggi
Segreti, ambizioni e idee sul futuro del calcio del procuratore. “Ho scelto di non accontentarmi. Vedo troppi parvenu in giro. Immobile? Per ora pensa alla Lazio”
Parliamo e chiacchieriamo da due città diverse, non lontane. Eppure Alessandro Moggi pare di averlo accanto, al massimo di fronte, occhi negli occhi. Parla con la serenità e la sagacia tipiche di chi ne ha viste tante. Parole a volte spezzate da una risata, come quando racconta i primi sogni da calciatore, “finiti in fumo non per chissà quale infortunio – dice al Foglio Sportivo l’agente – È la scusa più usata da chi non ha le qualità per giocare a calcio ad alti livelli. Io ci ho provato ma, ai tempi della Primavera del Napoli, guardando Cannavaro, Caruso, De Rosa, Pagotto e Ametrano, mi sono reso conto di non avere molte chance”.
Consapevolezza di non avere i mezzi giusti per arrivare in alto. E allora sotto con la carriera del procuratore. Nell’ottobre del 2001, Alessandro dà vita a un’agenzia destinata a diventare un impero. Gea World gestisce nientemeno che 250 giocatori e allenatori: al suo fianco ci sono Andrea Cragnotti, figlio di Sergio ed ex presidente della Lazio, Chiara Geronzi, figlia del leader di Capitalia Cesare, Francesca Tanzi, erede del patron di Parmalat e del Parma Calisto, e Riccardo Calleri, figlio dell’ex presidente di Lazio e Torino Gian Marco. Quest’ultimo detiene il 10 per cento in un tridente governato da Football Management (di Moggi jr. con il 45 per cento) e General Athletic (degli altri tre, stessa percentuale). Un cappello di dimensioni globali (sedi a Roma, Dubai e Londra che nei prossimi mesi traslocherà a Milano, progetti di brand boosting a New York), per anni concentrato a rappresentare i migliori atleti e tecnici del calcio mondiale.
La storia è lunga, perciò ci si concentra sul peso della global agency, ingombrante abbastanza da scatenare inchieste, minacce e processi, fino a Calciopoli e pure dopo. Anni capaci di segnare la vita di molti. “Da un punto di vista umano mi hanno indurito tantissimo – racconta Moggi – Non credevo più nella giustizia, i danni economici e morali erano evidenti nella misura in cui mi hanno tolto la famiglia e tolto il lavoro a mio padre, l’unico davvero violentato da questo scandalo. Le conseguenze hanno preso corpo nell’amarezza di non poter far rivivere a mio figlio ciò che avevo vissuto io tra squadre, spogliatoi, stadi, calciatori ed emozioni che per un adolescente sono impagabili”. Nella sua autobiografia l’agente racconta di aver anche pensato al suicidio. “Uno spaccato di vita devastante – continua il procuratore – specie se sai di essere nel giusto. Giraudo, il miglior manager in assoluto che conosca, ha potuto reinventarsi. Nel momento più critico anch’io ho ripreso a lavorare, spazzato via tutto e mantenuto intatto l’elenco dei miei clienti che hanno scelto di restare. Liverani è un mio pretoriano. Quando ho rincontrato Mutu, che nel 2006 portai alla Fiorentina in qualità di uno dei top dieci attaccanti al mondo, il nuovo accordo me l’ha firmato in bianco. Lì capisci che hai lavorato onestamente come uomo e professionista”. Nonostante i continui rimandi al padre, nonostante attacchi e offensive che non cesseranno mai, nonostante scomodi accostamenti che però non trovano chissà quali riscontri. Nonostante il cognome. “Che porto con orgoglio – chiarisce Moggi – Devo tutto a mio padre che, per me, rimane un modello di vita e professionale incredibile. Mi ha insegnato il rispetto e la cultura del lavoro, trasmesso il valore delle persone e degli impegni. Ricordo che sette mesi dopo il mio esame da agente, era il settembre del 1993, vado insieme a lui a vedere qualche match dei Mondiali negli Stati Uniti. A un certo punto, mi chiede di fare una telefonata per lui che finisco per dimenticare: segue una cazziata di frasi violentissime, quella sì, che non potrò scordare mai. Da quel momento, ho capito come si lavora”.
Resilienza, reazione, ripartenza. Un background di tale portata da qualche parte ti porta. Nella mente di Alessandro prende vita un nuovo mondo che necessita di espansione. Nel 2012 Gea World si rimette in moto e sbarca negli Emirati Arabi. Non ci sono procure, la nuova controllata Una World gode di capacità legate all’organizzazione di eventi, alla gestione dell’immagine, alle strategie di marketing e all’internazionalizzazione dei club. L’idea è quella di esportare il bello del calcio italiano anche in America. Serve pazienza. Oggi la percezione è differente, il riscontro professionale assoluto, l’apertura verso nuove aree fondamentale perché il domani possa risultare virtuoso. “Siamo in venticinque sparsi per il mondo – racconta Moggi – Dopo Una World, hanno visto la luce United Onlus che promuove attività speciali finalizzate alla raccolta fondi da donare in beneficenza, e Gea Tutor prodotta per una questione di riconoscenza verso il mondo degli atleti che, a un certo punto, staccano la spina e provano a reinventarsi. Momento piuttosto duro che, qualche volta, può comportare dei problemi economici là dove all’età di 34 anni, ancora giovani, molti di questi si ritrovano a dover affrontare una vita totalmente differente”. Squadra indissolubile, come non si fosse mai interrotto il cammino. Nuovi team che si incrociano, affamati, uniti da intenti futuristici, orizzontali. “Con ognuno dei miei partner esiste un rapporto basato su fiducia e condivisione. È un bel gruppo che pure vede la presenza di tanti ragazzi partiti e rimasti con noi dal 2001. Una famiglia vera. Gea World, per me, è un po’ come fosse una figlia. Riconosco di avere la testa dura, ma per qualcosa in cui credo sono disposto ad andare fino in fondo”. Abbastanza da sfidare i dettami della pandemia scatenata dal virus. Giornate troppo lunghe, ore che non passano mai, lampadine che si accendono all’istante. Novità in arrivo. “Sto lavorando ad alcuni progetti importanti con la Lega Serie A – conferma l’agente – Non fosse stato per la pandemia, quest’anno sarebbe tornata ExpoGoal con i protagonisti come sempre più importanti del mondo del calcio. L’evento ventennale sarebbe stato inserito all’interno di una kermesse in Costa Smeralda sviluppata con Flavio Briatore, pensata per accendere nuove luci sulla nostra Serie A: una due giorni che avrebbe coinvolto calciatori e rappresentanti di tutte le grandi istituzioni internazionali, in Sardegna per omaggiare il calcio italiano e riflettere sul futuro del football. Tutto comunque rinviato al prossimo anno”. L’oggi vissuto come fosse già domani. Così si emerge dal mare magnum del pallone. Liquido per antonomasia, flessibile per essenza. Il nuovo che riesce a rimanere tale per un tempo spaventosamente limitato. “E perciò non è tutto – prosegue il presidente di Gea – perché ho in mente altre iniziative da proporre, allo scopo di creare ulteriore valore attorno al nostro calcio. Oggi sento un gran parlare circa la valorizzazione dei brand, noi abbiamo cominciato a farlo sei anni fa. Ma qualcosa si muove: non è solo un discorso di diritti tv, per il futuro bisognerà guardare a nuove revenue”. Nel mentre Alessandro continua a indossare l’abito a cui è più legato, quello che brilla di più, il primo per il quale ha speso studio e sudore. Quello del procuratore è forse il profilo destinato all’upgrade più significativo. “Sopravvive chi meglio si adatta all’internazionalizzazione del mercato – dice Moggi – Quando ho iniziato io, la maggior parte dei nostri club erano composti da calciatori italiani. Attualmente senza ramificazioni all’estero e sedi operative nel mondo, non fai mercato. Vuol dire anche riuscire a spostare calciatori stranieri per il 60-67 per cento. Un tempo esisteva una decina di procuratori italiani altamente preparati e professionali, oggi vedo troppi parvenu improvvisati. Se prima dall’estero nessuno metteva piede in Italia, ora diverse agenzie straniere si servono degli italiani per muoversi all’interno del nostro paese. Così salta il professionismo”. Musica e parole di chi ha vissuto da protagonista l’era dei giganti, ancor prima che questi spiccassero il volo verso galassie irraggiungibili. Barnett, Raiola, Mendes, “che veniva in ufficio da noi a chiederci di accrescere la visibilità dei suoi assistiti – sottolinea Moggi – Erano i tempi di un baby Cristiano Ronaldo proposto alla Juventus in cambio di Marcelo Salas più soldi. Affare saltato a causa del rifiuto del cileno che a Lisbona preferì il River Plate. Il portoghese fu poi offerto alla Lazio di Sergio Cragnotti, presidente per me tra i più straordinari, che letteralmente rispose: ‘Nun me rompete er cazzo co’ questo e portatemi Ronaldo, quello vero”. La storia la conosciamo: CR7 va allo United, il Fenomeno rimane a Madrid, i capitolini prendono Muzzi dall’Udinese.
Frammenti di mercato, attorno ai quali gravitano migliaia di destini. Tra questi c’è quello di Ciro Immobile. “Portarlo al Dortmund – ammette l’agente – una delle due finaliste Champions nel 2013, fu motivo di orgoglio. Operazione da 19 milioni che però, all’epoca, erano soldi. E mi vengono in mente anche quelle di Lavezzi al PSG per 27 milioni (2012, ndr), Di Vaio alla Juve e Nesta al Milan. Ricordo poi con piacere quando ho convinto Preziosi a prendere Diego Milito. Non lo conosceva e, oggi, sto provando a fare lo stesso con Armin Gigović: centrocampista svedese classe 2002, ora titolare nonostante la giovane età all’Helsingborgs, che ricorda molto Milinkovic-Savic. Può davvero diventare una stella”. Di previsioni e proiezioni Alessandro se ne intende. Che Immobile sarebbe arrivato a sfondare il tetto dei grandi bomber lo dice da sempre. “È una star in tutti i sensi. Ciro lo metto in cima ai top player e uomini che ho conosciuto in questi 27 anni di carriera. Un ragazzo fatto di cuore, generosità, bontà e principi. Ha costruito una bellissima famiglia, anche grazie a quella d’altri tempi che lo ha cresciuto”. La Lazio nell’anima. Le vie del mercato sono infinite e i club interessati a Immobile non si possono certo contare sulle dita di una mano. E neanche di due. “Tutto può succedere ma, in questo momento, è totalmente concentrato sulla Lazio e sul sogno scudetto dopo una stagione ancora sì da chiudere, ma già fantastica. E occhio alla scarpa d’oro, anche se Lewandowski nel finale di Bundesliga si è agitato parecchio”. Quale che sia il fato della punta di Torre Annunziata, di sicuro lo vedremo in azzurro. C’è un Europeo da conquistare, un Mondiale che l’ultima volta ci ha sbattuto le porte in faccia. C’è da crederci. “Perché no – dice Moggi – Siamo tutti tifosi di un’Italia pronta alla rinascita. C’è tanto talento, grande carisma, un anno di tempo in più per guadagnare in esperienza, un ct come Roberto Mancini che ha dimostrato di essere vincente e uno dei più grandi bomber d’Europa come Ciro”. Attori e spettatori di un viaggio che, per quanto sia già adulto e maturo, è tutto fuorché in dirittura d’arrivo. Tempo anche di tracciare un bilancio e rivivere ciò che è stato. “Direi che va bene così – conclude Moggi – Sono contento di ciò che ho fatto, orgoglioso di essermi lasciato alle spalle la tempesta perfetta, felice di rappresentare uno dei più grandi attaccanti in Europa dell’ultimo decennio. Dopo il 2006 ‘avrei potuto accontentarmi, ma è così che si diventa infelici’, frase che ho tatuato sul braccio. Oggi lavoro con la stessa intensità del ’93, vivo in un mondo che ormai è la mia vita. Cerco anzi nuove sfide, degli obiettivi molto più ambiziosi da fissare lungo il mio cammino”. Un nuovo inizio. Non importa quanti ce ne siano stati, piuttosto conta pensarne sempre di altri, anche quando sembra di averli già vissuti tutti.
Nel numero di sabato 20 giugno il Foglio Sportivo ha iniziato, con Davide Lippi, una serie di interviste a procuratori per raccontare il mondo del calcio e del mercato visto dalla parte di chi fa muovere i soldi. Le interviste usciranno ogni settimana.
Il Foglio sportivo - In corpore sano