Accettava qualsiasi avversario, in qualsiasi spazio, su qualsiasi ring. Una volta combattè anche nella giungla. “Salii su un aereo a pale, che decollò, volò e atterrò, poi fui condotto in una radura – raccontava -. Un buio pesto, non si vedeva nulla, era tutto nero, nero l’altro pugile, neri gli spettatori, nero il quadrato, gli unici bianchi eravamo io, il mio manager e l’asciugamano. Al gong cominciai a prendere cazzotti uno dopo l’altro. Non li vedevo partire, però li sentivo arrivare. Una, due, tre riprese, e avanti così, subendo, incassando, resistendo. Finché alla decima, quello, per finirmi, caricò la bomba, io, per difendermi, abbassai la testa, lui mi colpì la capoccia e poi urlò di dolore. Gli hanno sparato, pensai. Invece si era fratturato mano, polso e avambraccio, e gli era uscita anche la spalla. E così, senza neanche tirare un solo pugno, e senza neanche aver mai visto l’avversario in faccia, vinsi per ko”.
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