il foglio sportivo
L'addio a Sergio Vatta, che fu maestro oltre che mister
Ha fatto grande la “cantera” del Toro, trasformava i ragazzini in uomini. Oggi il funerale a Trofarello, periferia di Torino
Prendeva dei ragazzini e li trasformava in uomini. Uomini prima ancora che calciatori, pur avendone allevati di fortissimi: Vieri, Dino Baggio, Cravero, Francini, Lentini, Fuser, Comi, Benedetti, Sclosa, Carbone, Venturin, Camolese, Ezio Rossi e decine di altri. Tutti plasmati da Sergio Vatta, per tre lustri straordinario mastro Geppetto delle giovanili del Toro, nella scuola non solo di calcio ma soprattutto di vita che era all’epoca il vecchio stadio Filadelfia. E’ stata, a lungo, la miglior ‘cantera’ italiana grazie a maestri come Giacinto Ellena, Oberdan Ussello, Ercole Rabitti nell’organizzazione gestita dall’avvocato Sergio Cozzolino, di cui Sergio Vatta fu l’ultimo, e forse più importante, rappresentante.
Nato nel 1937 in Dalmazia, fuggito nell’ottobre 1944 insieme alla famiglia con una delle ultime navi da una Zara ormai assediata dai partigiani di Tito, compie in Italia il lungo e doloroso viaggio dei profughi. Tappe a Fiume, Trieste, Mantova e poi Torino, in Borgo San Paolo, senza sapere allora che questa città sarà nel suo destino di allenatore dopo una carriera, modesta, da calciatore. Quasi tutta, singolarmente, passata tra Marche, Molise e Abruzzo, cioè sull’altra sponda dell’Adriatico dove era nato, vestendo le maglie di Fano, Campobasso e l’Aquila in Serie C. Lo descrivono come mezzala elegante, ma il suo destino era evidentemente fuori dalle linee del campo.
Torna in Piemonte per sedersi in panchina, con il privilegio di accomodarsi su quelle storiche di Pro Vercelli e Casale, portando i nerostellati a una storica promozione in C grazie anche alle parate di un portiere ventenne che farà carriera, Claudio Garella. La svolta nel 1977, quando lo chiama il Torino per il settore giovanile. Scopre un mondo, quello dei ragazzi, che diventa il suo mondo. Non si limita a insegnare la tecnica, ma il modo di comportarsi nella vita. Fu il primo allenatore a portare nello spogliatoio uno psicologo, il più noto è Franco Prunelli, convinto che i giovani possano crescere nel calcio solo imparando a conoscere il resto. Spesso, nelle riunioni, non parlava neppure di tattiche e partite: meglio chiedere ai ragazzi come andavano a scuola e magari toccare argomenti tabù come il sesso, che, secondo Vatta, non ha mai fatto male a un atleta. Odiava i luoghi comuni: non ha mai chiesto di scendere in campo con la bava alla bocca, sostiene che le cose riescano meglio a chi gioca sereno.
Un maestro in tutti i sensi, compresa la capacità di arrabbiarsi, e di brutto. Mai per un errore, quello è nella logica, ma quando non lo si ascoltava. E allora dalla sua bocca usciva l’universo creato, anche se nessuno comprendeva le parole: le volte in cui perdeva l’indirizzo di casa Vatta sacramentava in lingua dalmata. Come quando un suo portiere effettuò un rinvio diverso da quello che gli era stato ordinato. Lui si alzò dalla panchina, fece tutta la linea laterale con passo marziale e arrivato alla sua altezza gli puntò contro un dito ammonitore. E via alla lezione di lingua slava. “Asinone” era invece la variante temperata dell’incavolatura e il reo la subiva quando sbagliava un movimento tattico. Perché uno dei segreti di Vatta, oltre all’insegnamento tecnico, era spiegare ai ragazzi come si dovevano spostare sul campo. Senza esagerare, perché poi era il primo a responsabilizzarli. Ma ecco spiegato perché, con le sue squadre, si aveva l’impressione di guardare dei professionisti. Per il modo di stare in campo e soprattutto per il comportamento.
Arrivò in granata quando il club viveva il migliore momento dopo la tragedia di Superga. La squadra di Gigi Radice è campione d’Italia, lui sfrutta il carisma di Pulici e Graziani, Sala e Zaccarelli come esempio per i ragazzini che si allenano prima o dopo quei miti. Li indica come punto d’arrivo, al percorso pensa lui, persino attraverso il training autogeno, quasi mezzo secolo fa roba da marziani in assoluto, figurarsi in un settore giovanile.
Vatta, in realtà, era l’apoteosi di un lavoro che cominciava molto prima, attraverso una rete di osservatori capaci di segnalare talenti dal Brennero a Lampedusa, anche se il giudizio finale, dopo visione diretta del pupillo, era sempre il suo. Operazioni rese più facili dalla fama di cui godeva il vivaio del Torino, non inferiore a quella odierna dell’Ajax. E se per un piccolo club mandare un ragazzino al Filadelfia equivaleva a una medaglia al merito, per il giovane calciatore significava, salvo rari intoppi, la certezza di una carriera. Qualcuno in Nazionale, molti in serie A, altri ancora in B o proprio andar male, per i meno dotati o i meno fortunati, in C. Troppo importante il curriculum sotto la guida di Vatta, capace con la squadra Primavera di vincere sei titoli tra il 1983 e il 1990, quattro volte la Coppa Italia e altrettante il torneo di Viareggio, più o meno la Champions League a livello giovanile. Spesso senza neppure contare sui migliori perché quasi sempre i ragazzi diventavano subito buoni per la prima squadra ancora prima di avere l’età per la patente o il diritto di voto: Lentini e Francini esordiscono in serie A a 17 anni, Cravero a 18, Dino Baggio a 19.
L’ultimo pupillo portato da Vatta a Torino è Christian Vieri, troppo forte perché Mondonico non lo schieri appena diciottenne contro la Lazio in coppa Italia, ricevendo in cambio il dividendo di un gol. La sua eredità tecnico-morale porterà tre suoi “pupilli”, Ezio Rossi, Giancarlo Camolese e Moreno Longo a diventare allenatori del Toro.
Non abbandonò mai il settore giovanile, salvo nella primavera del 1989, quando il Toro stava precipitando in serie B e a quattro partite dalla fine del campionato lui era davvero l’ultima risorsa. Non riuscì nell’impresa, nonostante una vittoria sull’Inter campione d’Italia, e quel mese con i “grandi” gli bastò. Torno nel mio mondo pulito, disse, con l’aria di uno che riprendeva a respirare. Amava il calcio, non le esagerazioni che stavano intorno. Quando il Milan si presentò con un assegno per curare il settore giovanile che gli raddoppiava l’ingaggio rispetto al Torino rifiutò. “Come potrei spiegare certi valori ai ragazzi se io fossi il primo a cedere davanti al denaro?”. Lui, con il suo lavoro ma soprattutto la sua passione, ne procurò tantissimo, quando la cessione dei talenti che aveva cresciuto e modellato davano al Torino le risorse economiche per abitare in pianta stabile la zona nobile della classifica. Poi, quando ai vertici del club granata arrivarono altri personaggi, diciamo così meno votati alla poesia, non bastò più neppure Vatta. Salutò per assumere l’incarico della di Direttore Tecnico delle squadre Nazionali, quindi fu alla guida delle Azzurre e poi alla Lazio, dove vinse ancora un titolo Primavera. Recentemente aveva festeggiato i 40 anni della conquista del campionato degli Allievi del 1980. C’erano tutti i ragazzi della squadra.
Come saranno in tanti oggi al funerale a Trofarello, periferia di Torino. Viaggiano tra i 40 anni e i 60 anni. Per un giorno torneranno ragazzi per salutare chi li fece diventare uomini.
Nicola Roggero (Casale Monferrato, 7/10/1964) è telecronista a Sky dove si occupa di calcio inglese e atletica