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Rivalse, resistenze e altre sciocchezze al Tour de France
Kwiatowski vince, Landa attacca, Uran e Yates pagano pegno
Carapaz e Kwiato arrivano soli e mano nella mano a La Roche-sur-Foron. Così il Team Ineos-Grenadiers prova a dimenticare l'abbandono di Bernal. Le Alpi salutano la Grande Boucle. Tra Roglic e Pogačar deciderà il cronometro
Lassù tra le Alpi ci sono piccoli paesi e grandi spazi nel quale si dipanano piccole storie e grandi resistenze. Così è stato per secoli. Poi è arrivato lo sport. E con lo sport se non tutto, almeno molto è cambiato. Perché le storie sono diventate meno piccole. Le resistenze invece sono rimaste invariate. Dal ciclismo all’alpinismo, passando per lo sci, campioni e carneadi, avventurosi e temerari hanno allargato la portata dei racconti montani, gli hanno urbanizzati e spettacolarizzati, non ne hanno però cambiato i connotati. Sono rimasti sempre e comunque racconti di adattamento. Perché è questo che l’uomo non può fare sotto le vette montane: adattarsi a loro, assecondare le loro volontà sperando che queste siano simili alle ambizioni personali.
Anche tra Méribel e La Roche-sur-Foron, diciottesima tappa del Tour de France, si sono dipanate piccole storie e grandi resistenze. Piccole storie di tentativi di rivalsa, ché i luoghi sono quelli giusti, posti inqueti, da sempre poco inclini all’accettazione passiva di destini scritti da altri.
Ne sanno qualcosa i conti di Ginevra, i Savoia, gli spagnoli, che qui hanno alternato il loro dominio, ma che mai sono riusciti a imporre davvero le loro leggi. Piegarsi mestamente al potere non è cosa per chi abita le valli e i monti dei Pays Rochois. “Refrattari alla disciplina”, li aveva descritti uno dei tutori dell’ordine pubblico del contado di Ginevra. “Insofferenti alle imposizioni governative, seguaci di un’idea pericolosa di progresso”, aveva scritto in una lettera al governo francese il capo della sezione locale della Gendarmeria parlando della volontà degli abitanti della Roche-sur-Foron di affidarsi all’elettricità. Furono il primo comune francese a essere illuminate totalmente grazie all’energia elettrica. “Non vogliamo dipendere da nessuno”, si limitò a dire il sindaco. Volontà di rivalsa verso una storia che li ha sempre visti sudditi di qualcuno.
Richard Carapaz e Michal Kwiatkowski avrebbero invece volentieri interpretato la parte dei sudditi di sua maestà Egan Bernal, che re è stato al Tour poco più di un anno fa. Un regno che al Team Ineos–Grenadiers erano convinti potesse continuare, abili come sono a creare solide monarchie ciclistiche. Non tutti i piani, nemmeno quelli redatti dai migliori pianificatori di vittorie sportive dell’ultimo decennio, però riescono. Soprattutto quando altre potenze si affacciano e premono ai confini. In queste settimane il colombiano ha prima faticato, si è poi staccato, infine ha abbandonato la corsa. E così gli scudieri si sono sentiti liberi di inseguire la propria rivalsa. Personale, certo, di squadra, soprattutto. Perché l’Ineos-Grenadiers non aveva bisogno soltanto di una vittoria – è arrivata con Kwiatowski –, aveva bisogno di una dimostrazione di superiorità, di sentirsi vicina a quello che aveva dimostrato di essere in questi anni: una solida potenza. Non c’è nulla di peggio per chi è abituato a controllare tutto e tutti, che dimostrarsi debole, incapace di contrattaccare.
E così sul Cormet de Roselend, lungo la Route des Grandes Alpes, il percorso che unisce tanto, quasi tutto, del meglio delle Alpi – i francesi anche nelle vie di comunicazione strizzano l’occhio alla magnificenza –, la Ineos–Grenadiers ha organizzato la sua esplorazione alpina. Tre uomini: un granatiere, Jonathan Castroviejo, uno sherpa, Mikal Kwiatowski, uno stambecco, Richard Carapaz. Con loro in tanti, una trentina. Gente da volata e da tirata, da scalata e da cordata.
La montagna non ama però il clamore della folla, preferisce il sussurro dei pochi. E in pochi la salita, quella del Col des Saisies, li ha ridotti. Anzi in cinque: Kwiatowski, Carapaz, Hirschi, Edet e Bilbao. Ancora troppi. Prima s’è fracassato in discesa lo svizzero, poi ha mollato il francese, infine lo spagnolo. Così verso La Roche-sur-Foron è rimasta la coppia del Team Ineos–Grenadiers. Sono arrivati in parata, abbracciandosi, dandosi la mano, sorridendo. E questa è una notizia. Da Nizza non era mai capitato.
Kwiatowski e Carapaz (che ha conquistato, almeno per ora, la maglia a pois) non erano però gli unici che avevano rivalse da prendersi nell’ultima tappa alpina della Grande Boucle. Altre resistenze la diciottesima tappa del Tour de France ha messo in scena, su tutte quella di Mikel Landa con se stesso e la montagna.
Ieri il basco aveva provato a far saltare gli altri grazie al lavoro di squadra. È andata male: è saltato lui. Oggi ha mandato la squadra a battergli la via, ma minuti prima: l’idea era quella che ogni tanto si trasforma in impresa. Il piano era buono: Pello Bilbao di vedetta, Damiano Caruso di spola (gran tappa anche oggi per il siciliano e undicesimo posto in classifica generale, secondo nella classifica dei “gregari”). Non è stato il caso di oggi. Le montagne tollerano di essere sfidate uno alla volta, farlo in due viene vista come presunzione. Landa sul Montèe du plateau de Glières, ultima salita in programma, è scattato, ha preso coraggio e distanza, poi ha dovuto accettare che i bastioni di Roglic sono solidi, difficilmente attaccabili. Il basco ha comunque allontanato dal suo quinto posto Rigoberto Uran e Adam Yates. Non è tanto, ma a volte, almeno in montagna, può capitare che grandi resistenze generino anche piccole storie.
Il Tour de France si concluderà domenica. Sabato ogni cosa sarà chiara: si saprà se Pogačar riuscirà nell'impresa (quasi) impossibile di ribaltare Roglic, si saprà assieme a loro salirà sul podio Lopez o Porte (ci vorrebbe un mezzo miracolo), si saprà se la rivolta abortita di Landa sarà stata sufficiente per il quinto posto – che è poco, ma che è meglio di niente, soprattutto per l'argent che il Tour riserva ai piazzamenti.