il foglio sportivo

Il paradosso Florenzi

Andrea Romano

Ex idolo della Curva Sud, Capitan Futuro Remoto senza personalità, ha lasciato i giallorossi per il Paris Saint-Germain nell’indifferenza di tutti. Storia di un equivoco

I giornalisti lo aspettano già da qualche minuto. Con le penne in resta e le telecamere in spalla. Con i taccuini aperti e con le loro domande preconfezionate. Dani Alves scende nella pancia del Camp Nou e si mette a sedere dietro a una scrivania. Alle sue spalle c’è un tabellone colorato dagli infiniti sponsor della Champions League. Davanti al suo naso solo un microfono e uno sport drink di un’indefinibile sfumatura di rosso. Risponde a una domanda dopo l’altra. Sorridendo, gesticolando, annuendo. Poi si ferma all’improvviso. La faccia seria, lo sguardo dritto davanti a sé. Qualcuno si alza e prende la parola. “Pensi che Florenzi possa essere il tuo erede?”, chiede. Il brasiliano deglutisce, sbatte le palpebre, inclina la testa verso destra. Dalle sue labbra filtra un suono grottesco. Sembra una risata soffocata. Sembra un goffo tentativo di prendere tempo. “Be’ se viene ora la vedo difficile, c’è tanta concorrenza per giocare”. Il sorriso che evapora dal suo viso, la fronte che si accartoccia fino a formare qualche ruga. “Comunque è un grandissimo giocatore – aggiunge in fretta – ha una qualità enorme e un piede eccellente. È uno da tenere in considerazione”. Sono parole di circostanza. Frasi accroccate per uscirne nel modo più elegante possibile. Perché il giorno dopo il Barcellona scende in campo e seppellisce la Roma sotto un pesantissimo 6-1. È un risultato che rischia di eliminare i giallorossi dalla Champions League 2015/2016. Ma, soprattutto, è un risultato che mette fine a una favola iniziata due mesi prima. Il 16 settembre del 2015 la Roma ospita i blaugrana all’Olimpico. E va subito in difficoltà. Il Barça avvolge gli avversari, li blocca nella loro metà campo, prosciuga le loro energie. Al 21’ Luis Suarez mette dentro il pallone del vantaggio. Sembra la fine. E invece 10’ più tardi Florenzi recupera palla sulla trequarti difensiva e comincia a correre accanto alla linea del fallo laterale. Un tocco, due tocchi, tre tocchi. L’esterno supera il centrocampo e alza la testa. Vede Ter Stegen fuori dai pali, osserva quella porta così piccola e quel pallone così grande. Succede tutto in una frazione di secondo. Florenzi lascia partire un pallonetto che decolla dolcemente. Per 55 metri e 50 centimetri. Poi la sfera si abbassa, si strofina contro il palo, accarezza la rete. È un gol impossibile. Una rete che svuota i polmoni e brucia le gole di commentatori e tifosi. Ne parlano tutti. In tutto il mondo. La Champions ha già la rete più bella della sua edizione.

 

 

Qualche settimana più tardi l’Italia gioca contro la Norvegia. L’esterno si esibisce in un’altra grande partita. E trova ancora il gol. È il punto più alto della sua carriera. Florenzi non è più un gregario, ora è un protagonista. Walter Sabatini si presenta davanti alle telecamere e dice: “Può fare la mezz’ala e anche la punta, ma fa il terzino destro perché è più forte di Dani Alves. Sarà il crack in quel ruolo nei prossimi anni”. Una frase a effetto che non ha niente di profetico. Perché cinque anni più tardi il campo ha raccontato una storia molto diversa. Florenzi non è diventato più forte di Dani Alves. E non è diventato neanche un crack di mercato. Al contrario, si è ritrovato esiliato in un paradosso.

 

La scorsa settimana è salito su un aereo per unirsi al PSG, per far parte della squadra più ambiziosa d’Europa. E l’ha fatto nell’indifferenza di una città intera, in un’atmosfera di appiccicosa malinconia. Nessuno a Roma sembra rimpiangerlo. Anche se i giallorossi sono terribilmente scoperti in quel ruolo. Otto stagioni e 226 partite in Serie A non sono bastate a decifrarlo. Florenzi è ancora un enigma insoluto, è lo Stan Laurel di Osvaldo Soriano che in Triste, Solitario y Final si presenta a Philip Marlowe dicendo: “Sono un uomo famoso che nessuno conosce”. Per qualcuno è un terzino, per altri un centrocampista, per altri ancora un attaccante. Ma c’è anche chi è pronto a giurare che non sia niente di tutto questo. Nelle sue caratteristiche c’è qualcosa di illogico. Il suo fisico è troppo minuto per permettergli di difendere in maniera efficace. I suoi passaggi non sono così precisi per farlo emergere come centrocampista. Il suo dribbling non è così affilato per trasformarlo in un esterno devastante. Eppure Alessandro Florenzi ha giocato ovunque. E anche bene. L’inserimento offensivo come vocazione, Fabregas come santino da tenere nel portafogli.

 

Nelle giovanili della Roma gioca centrocampista. La prima mutazione arriva a Crotone. Serve un terzino destro. Così mister Menichini gli chiede se se la sente di giocare lì. E lui ovviamente risponde di sì. Qualche mese più tardi qualcuno gli domanda lumi sul suo vero ruolo. “Sono un centrocampista offensivo – risponde – il mio peggior difetto è la fase difensiva. Ma sono un ragazzo molto umile: anche terzino o ala, per me va bene, pur di giocare”. Dopo un anno (e 11 gol segnati) torna a Roma. Zeman lo schiera a centrocampo per sfruttare i suoi inserimenti, poi Garcia lo alzerà nel tridente offensivo. La liquefazione di Maicon gli spalanca il ruolo di esterno basso. Non è il posto della vita ma è pur sempre un posto fisso. Florenzi sa che è la via più breve per giocare titolare. E prova a sfruttarla. Alterna prestazioni scintillanti e disastrose. Un prezzo che è disposto a pagare pur di esserci, pur di mettere fine a quel nomadismo che ha limitato la sua crescita. Il vero problema non riguarda direttamente il campo. Il Nano di Pär Lagerkvist dice che “i poeti celebrano soprattutto l’amore, ed è anche giusto, perché nulla come l’amore ha tanto bisogno di essere trasformato in ciò che non è”. E non c’è frase migliore per descrivere quella che è stata la narrazione del suo rapporto con la Roma. Per anni Florenzi è stato banalizzato, è stato raccontato come ragazzo di Vitinia diventato titolare della sua squadra del cuore. E poco altro. L’abbraccio alla nonna in tribuna dopo il gol al Cagliari diventa carta moschicida buona per intrappolarlo in un ruolo. Tutti lo ammirano, tutti gli vogliono bene, nessuno lo prende sul serio. Peter Pan a vita, si guadagna i galloni di Capitan Futuro Remoto in una squadra dove per ottenere la fascia al braccio bisogna manomettere il concetto di tempo. Come Dorian Gray invecchia rimanendo sempre uguale agli occhi della gente, restando sempre confinato in una posizione di subalternità rispetto a Totti e De Rossi. Il suo modo di essere stride con quello del Capitano. Se per Totti il gesto tecnico sublime è l’affermazione della propria superiorità tecnica, la celebrazione di quella eucarestia pagana che ogni domenica lo ricongiunge con il suo popolo, per Florenzi la giocata illuminante non è infrequente ma è sempre spiazzante. È il primo a stupirsi di se stesso, a meravigliarsi dell’espressione pratica del suo talento. È come se avesse bisogno di essere rassicurato. E chi deve autoconvincersi delle proprie doti difficilmente riesce a persuadere gli altri. Così quando finalmente si allaccia la fascia da capitano intorno al braccio inizia a sentirsi solo sul serio. Durante una partita Dzeko lo sposta platealmente per protestare con l’arbitro. Kolarov lo manda a quel paese dandogli del presunto fenomeno. Florenzi ha difficoltà a imporre la sua autorità e così finisce per convincersi di essere lui il problema. E offre il ruolo di capitano a Dzeko.

 

 

Dopo due infortuni alle ginocchia scivola ai margini. Il suo contratto scade proprio durante la surreale gestione Monchi. Florenzi rivendica ancora la sua diversità rispetto a chi lo ha preceduto. Dice che vuole restare, ma anche che non esclude di poter cambiare aria in futuro. E visto che si tratta del suo ultimo contratto, prova a negoziare come hanno fatto tutti i suoi colleghi. Ennio Flaiano diceva che “in amore gli scritti volano e le parole restano”. Florenzi firma il contratto, ma non basta. La tifoseria gli rinfaccia quel possibile addio. Qualcuno lo chiama addirittura “30 denari”. Fonseca non lo vede più, gli preferisce Bruno Peres di rientro dalla seconda categoria brasiliana. Così Alessandro viene dato in prestito al Valencia. Dopo 6 mesi torna a casa. Ma è solo di passaggio. Si cerca un acquirente. E dal niente spunta il PSG, il club che punta a vincere la Champions e che per riuscirci pensa di aver bisogno anche del suo contributo. Il divorzio è ingeneroso e si consuma in poche ore. Florenzi sale sull’aereo e saluta la sua Roma. Un addio triste, solitario y final.

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