giro di tavole
Giro d'Italia 2020, Caicedo, Fuglsang, Nibali e la disfida dell'arancino (o arancina)
L'Etna azzera le speranze di vittoria di Thomas (caduto), fa quasi scomparire quelle di Simon Yates (in ritardo), rilancia quelle del danese e dello Squalo. A vincere però è l'ecuadoriano della EF
L'origine degli arancini o arancine è una delle questioni più dibattute e tribolate di tutta la Sicilia. Garibaldi, quando lo mangiò la prima volta lo paragonò a un piatto andino. Oggi al Giro un andino ha vinto, ma non vuol dire niente
Se c’è una cosa che non mette d’accordo nessuno in Sicilia è l’origine degli arancini o arancine. Un po’ tutte le province della Sicilia, in un modo o nell’altro, se ne attribuiscono la paternità. Da Trapani a Messina, da Palermo a Siracusa esiste qualche storia che farebbe del pezzo da rosticceria più famoso dell’isola una ricetta locale. A chi e dove sia venuto in mente di mettere insieme un po’ di riso cotto con un condimento, impanarlo e friggerlo, non è dato a sapersi. Di fonti ce ne sono tante, forse troppe. Quello che è certo è che quando Giuseppe Garibaldi passò per la Sicilia per conquistare l’Italia gliene venne offerto uno e lui lo trovò buono, molto buono, talmente buono che gli ricordava un piatto che gli facevano due signore che venivano dalle alte montagne al di là dei fiumi che attraversavano il Brasile. Stessi ingredienti: riso, carne e verdure. Stesso procedimento: appallottolare, impanare, friggere.
Di arancine o arancini, almeno ora, ce ne sono tanti, differenti per gusto e forma. C’è chi li fa a forma di palla simili ad arance. C’è chi li fa a forma di cono a ricordare l’Etna. Sulle pendici del vulcano ce ne sono di buonissimi con le interiora e i funghi.
Una decina di anni fa, in un bar di Milano, riportarono le cronache locali, due signori, uno di Palermo l’altro di Catania, arrivarono alle mani a causa di una discussione proprio sull’origine degli arancini o arancine. Nessuno dei due convinse l’altro delle proprie ragioni e, dopo qualche ora in questura, se ne tornarono a casa con le proprie convinzioni intatte.
Lungo la salita che porta all’Etna, chissà se è davvero in omaggio del vulcano che a Catania l’arancino ha preso quella forma, anche i corridori del Giro d’Italia hanno provato a esporre le proprie ragioni. Ragioni ciclistiche ovviamente, ma simili a quelle dei due signori siciliani trapiantati a Milano: volontà di predominio. Alle mani però hanno preferito, com’è d’uopo in bicicletta, risolvere le proprie divergenze con le gambe, invece degli schiaffi sono stati scelti gli scatti.
Geraint Thomas e Simon Yates si sono tolti da questa diatriba subito. Il gallese, dolorante per le botte prese che la terza tappa del Giro d’Italia non era ancora iniziata – è caduto durante la fase di trasferimento – ha mollato, ahilui, prima ancora che l’ultima salita iniziasse. L’inglese c’ha messo un po’ di più ad accorgersi che non era giornata. In ogni caso in cima sono arrivati rispettivamente con oltre dodici e oltre quattro minuti di ritardo, salutando così se non del tutto, almeno per Yates, sicuramente in grandissima parte, ogni ambizione di salire sul podio di Milano con la maglia rosa addosso.
Sotto la pioggia che ha bagnato il vulcano Matteo Fabbro si è permesso di prendere il proscenio, sgombrarlo dalla folla e prepararlo per pochi. Jonathan Castoviejo ha provato a prenderselo per sé, un po’ per dimostrare finalmente che è in grado di curare anche i suoi interessi e non solo quelli dei suoi capitani, soprattutto per rendere meno amaro il secondo grande giro che, con ogni probabilità, non vedrà un corridore della Ineos lottare per vincere. Lo spagnolo c’ha provato, alla fine è rientrato nei ranghi, ma ranghi alti, quelli del gruppo buono per la classifica generale. Quello di Vincenzo Nibali, Jakob Fuglsang, Rafal Majka e Domenico Pozzovivo. I quattro hanno provato a staccarsi, hanno provato a far venire le gambe dure agli altri più e più volte. Hanno tentato l'assolo, senza però riuscirci. Solo in prossimità dello striscione d’arrivo si sono convinti a seguire Fuglsang che da chilometri diceva loro di collaborare per portare in cascina il maggior numero di secondi di distacco sugli altri. Anche perché davanti loro gravitavano Wilko Kelderman e Harm Vanhoucke. Il primo, quarto, da anni cerca la sua dimensione nell’alta classifica senza trovarla; il secondo, terzo, ha voglia di stupire tutti, soprattutto se stesso, anche perché ha una promessa da mantenere. Quella fatta al suo amico Bjorg Lambrecht, andatosene troppo presto oltre un anno fa al Giro di Polonia.
Alla fine la disfida dell’arancina o arancino però l’ha vinta Garibaldi. Tutti a discutere sui pedali di questo e di quest’altro ma alle spalle di un ragazzo che viene dalle alte montagne al di là dei fiumi che attraversavano il Brasile. L’ecuadoriano Jonathan Klever Caicedo in cima all’Etna ci è arrivato da solo, ha alzato le braccia verso il cielo piovoso, ha sorriso (mancato la maglia rosa, che ha vestito Joao Almeida, per qualche centesimo) dopo una fuga durata una tappa intera.
La stessa che ha animato Giovanni Visconti, secondo al traguardo ma decisamente meno felice.