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Quando nel rugby la palla non muore mai
La prima partita della Bledisloe Cup tra Nuova Zelanda-Australia è finita con un pareggio spettacolare per 16 a 16 e un tempo di recupero che sembrava infinito
La regola è chiara: la partita di rugby dura 80 minuti, in due tempi di 40 ciascuno, più il recupero, e finisce “quando il pallone diventa morto”, cioè l’azione finisce. Ma domenica sera a Wellington in Nuova Zelanda (e domenica mattina in tv in Italia), il pallone non moriva e l’azione non finiva. Mai.
Nuova Zelanda-Australia, o meglio, All Blacks-Wallabies: sempre e comunque, il meglio del meglio in Ovalia. Per fascino, passione, tradizione. E la più vecchia tradizione che unisce e divide, che mischia e separa, che distingue i Tuttineri da quegli animali, simili a piccoli canguri, nativi in Australia (e in Nuova Guinea), in verità fantastici e orgogliosi energumeni, la più vecchia tradizione è la Bledisloe Cup, trofeo concepito nel 1931, assegnato per la prima volta nel 1932, conteso unicamente da quei due Paesi, da quei due popoli, da quelle due nazioni e nazionali. Fu Charles Bathurst, quarto governatore generale della Nuova Zelanda e primo visconte Bledisloe, un mecenate non solo nel rugby, a volere quella sfida. La coppa fu disegnata da Nelson Isaac della Scuola dell’arte al Wellington Technical College e realizzata dai maestri argentieri Walker and Hall di Londra, un giorno prestata per una promozione turistica e incredibilmente dimenticata e infine miracolosamente ritrovata proprio in Australia – ma guarda il caso - in un negozio polveroso di Melbourne. In ballo, dunque, molto più che il rugby.
All Blacks e Wallabies sono all’inizio di un nuovo ciclo, in tribuna siedono rispettivamente i nuovi allenatori Ian Foster e Dave Rennie, in campo entrano molti nuovi giocatori sul palcoscenico internazionale. Le statistiche anneriscono i pronostici: finora, 115 vittorie neozelandesi e 44 australiane con sette pareggi, in particolare nelle ultime 50 sfide sono stati 39 i successi neozelandesi e nove quelli australiani con due pareggi, e la Bledisloe Cup non si muove da Aotearoa (il Paese dalla “lunga nuvola bianca”) dal 2003. Per il primo match internazionale dallo scorso marzo, 30mila spettatori senza mascherine nel Wellington Cake Tin (lo stadio a forma di tortiera), un tempo folle, quattro stagioni una via l’altra fra sole, nuvole, pioggia, diluvio e vento, e una partita ancora più folle. Per farla breve: il primo tempo si chiude 8-3 (meta e calcio di Jordie Barrett, calcio di James O’Connor). Nel secondo i neozelandesi allungano (meta di Aaron Smith), gli australiani risorgono (mete di Marika Koroibete e Filipo Dauganu): 13-13. Poi la partita si fa drammatica: al 73’54” O’Connor centra i pali (13-16), al 78’38” Barrett riporta a galla i Tuttineri con un altro piazzato (16-16), finché l’Australia sfrutta un’infrazione della Nuova Zelanda e conquista un calcio a tempo scaduto. E’ l’82’22” quando O’Connor, da 53 metri, in posizione favorevole (leggermente sulla sinistra per lui destro) colpisce il pallone, ed è l’82’25” quando il pallone trova il suo destino sul palo. Il pallone rimbalza, torna in campo, non è “morto”, e così si gioca ancora. Uno, due, tre, quattro, cinque interminabili e inconcludenti minuti in cui il match prosegue, gli scontri si moltiplicano, le occasioni si fabbricano, la sfida – eterna – continua. E’ l’88’ quando a cinque metri dalla linea di meta australiana gli All Blacks provano a sfondare: una, due, tre volte, fra “ruck” e “pick and go”. Finché il pallone svirgola dalla parte dei Wallabis, passato a O’Connor e spedito in tribuna. E’ l’88’34”. Il pubblico, esausto ma inappagato, fischia.
Gli All Blacks potrebbero tagliare le mani a Rieko Ioane, colpevole nel recupero del primo tempo (41’24”) di essersi lasciato sfuggire il pallone mentre lo depositiva stile “touch-down” anziché schiacciarlo in tuffo. I Wallabies potrebbero raddrizzare i piedi di O’Connor, autore di quel palo indimenticabile. Ma non è nel loro stile. Sapete che cosa hanno pubblicato gli All Blacks sul proprio sito ufficiale? Prima un’immagine di O’Connor deluso, anzi, affranto, con il commento (tecnico e ironico) “E’ una questione di millimetri”, poi un video dei saluti finali fra le due squadre con il riconoscimento (spirituale e umano) “Grazie Australia! Che battaglia”. E domenica prossima, altra battaglia: la rivincita, a Auckland. Chi vince, vince. Anche la Bledisloe Cup.
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Tennis italiano al Roland Garros di Parigi negli Internazionali di Frencia: Eleonora Alvisi, 17 anni, di Barletta, e Lisa Pigato, 17 anni, di Bergamo, hanno conquistato il titolo nel doppio femminile juniores, e Flavio Cobolli, 18 anni, di Roma, quello maschile in coppia con lo svizzero Dominic Stephan Stricker.
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Novecento partecipanti alla tappa del Giro d’Italia di ciclocross a Corridonia, nelle Marche. Mai così tanti. Si corre nel fango, ma verso la gloria. Perché gli emergenti della strada (dal belga Wout Van Aert all’olandese Mathieu van der Poel), d’inverno, rompono il fiato, si fanno i muscoli e costruiscono la volontà nel ciclocross.
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Motociclismo a Le Mans. MotoGp, trionfo italiano con Danilo Petrucci, in testa dall’inizio alla fine, quarto Andrea Dovizioso, Valentino Rossi subito fuori. Moto3, doppietta italiana con Celestino Vietti e Tony Arbolino. Moto2, terzo Marco Bezzecchi nella gara vinta dal britannico Sam Lowes.
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Basket, campionato italiano, terza giornata, una sola squadra a punteggio pieno: la notizia è che si tratta dell’Olimpia Milano. Come sempre ricca di finanze e talenti, ma stavolta – pare – anche di carattere e spirito, sbanca Trieste ed è alla sua diciassettesima vittoria consecutiva. Ed è il diciassettesimo titolo Nba – i signori dell’anello - per i Los Angeles Lakers: dominano gara-6, chiudono con Miami sul 4-2, tutto in una bolla.