Il Milan può vincere lo scudetto?
Gli uomini di Pioli sono primi in classifica a punteggio pieno e con un derby appena vinto per 2-1 alle spalle. Rivedere in alto i rossoneri è affascinante ma ci sono molti indizi che dicono che il finale potrebbe essere diverso
Benvenuto il luogo dove/il futuro è sempre più precario/benvenuta l'incertezza/di un luogo poco serio. Giorgio Gaber non è più tra noi da diciassette anni, eppure questi versi sembrano risalire a ieri sera. Nell'autunno italiano in cui nulla è chiaro e chi è chiamato a chiarire ingarbuglia ulteriormente la matassa, il campionato si adegua e dopo quattro giornate – un soffio, ok, ma questo è – ci offre una scena seducente nel suo mistero: le due favorite annunciate sono attardate, la terza incomoda si è squagliata al sole di Napoli mettendo in mostra una bella dose di immotivata arroganza, il medesimo Napoli, la Roma e il Sassuolo fanno baldoria a suon di poker e cinquine ma in testa alla classifica spunta l'inedita silhouette di Stefano Pioli. Dopo aver vinto all'ottavo tentativo il suo primo derby cittadino, Pioli si presenta alle telecamere e rimane tutto d'un pezzo: “Come piove bene sugli impermeabili”, canta un milanista doc come Paolo Conte, e la memorabile sentenza dell'Avvocato di Asti si attaglia particolarmente bene a Pioli che si fa scivolare addosso ogni veleno e ogni entusiasmo, come se la sua giacca e la sua stessa anima fossero fatte di Gore-Tex.
Ma voi che avete aperto questo articolo che ha una domanda come titolo, vi aspettate di trovarci la risposta più chiara e sincera possibile; e quella risposta, se dobbiamo ancora credere a un calcio logico, razionale e consequenziale, è no.
Oltretutto è una domanda piuttosto capziosa, una di quelle domande che chi non va mai al bar definisce “domande da bar”: “La squadra XY è da scudetto?” è una questione che negli ultimi dieci anni a un certo punto ci si è posti per almeno dieci squadre diverse, compresa la Fiorentina di Paulo Sousa (ve la ricordate la Fiorentina di Paulo Sousa?), e alla fine vince sempre la Juventus. Il fatto che la squadra del momento sia finalmente il caro vecchio Milan aggiunge fascino all'intrigo, ma è pur vero che le carte sul tavolo sono chiare: la rosa presenta dei limiti oggettivi e da giovedì è attesa pure dalla goccia cinese dell'Europa League, competizione che diventa bella e tollerabile solo dalle semifinali in avanti. Napoli, Inter e Juventus gli sono superiori, e non aggiungiamo l'Atalanta solo per eccesso di prudenza dopo la ripassata del San Paolo: se un flop di una delle quattro sta nell'ordine delle cose e aiuterebbe i rossoneri a centrare quella qualificazione Champions di vitale importanza per le loro finanze, il suicidio di massa è un'ipotesi che rasenta il fantascientifico. L'alternativa è che il Milan colmi per magia il gap di 45 punti accumulato lo scorso anno dal trio Inter-Juve-Atalanta (per ovvi motivi il Napoli 2019-2020 è un discorso a parte) e qui dobbiamo appellarci un po' conigliescamente all'insufficienza di prove: anche a ottobre il derby è una rondine che non fa primavera.
In altre parole, il destino del Milan si compirà quando subirà la prima sconfitta o incapperà in una serie di brutti risultati; la scorza di questa rosa (a cominciare dal suo allenatore) la misureremo nella reazione prodotta da quei cattivi risultati. Ogni campionato vinto è un percorso a ostacoli, specialmente per chi non vince da dieci anni: l'ultimo Milan scudettato, 2010-2011, si scoprì vincente proprio quando tutta Italia dubitava di lui, nelle due settimane che precedevano lo scontro-scudetto del derby di ritorno, da giocare senza Ibrahimovic contro l'Inter di Leonardo in impetuosa rimonta. E finì 3-0.
Ma questa è l'epoca della complessità e sospettiamo che non vi accontentiate di un semplice no. Volete sentirne di più, e avete ragione: questo è un campionato senza precedenti, con tante incognite ancora non decifrate e decifrabili. Almeno tre.
1. Nell'epoca dei tre punti, il Milan è l'unica squadra capace di vincere uno scudetto dopo aver concluso il campionato precedente a 30 punti dal primo posto (altro che i 17 dell'anno scorso). È successo nel 1998-99, annata stramba, post-Mondiali, con l'Inter lasciata a piedi da un Ronaldo a pezzi e la Juve di Lippi abbondantemente a fine ciclo. Il vuoto di potere che ne derivò, riempito solo parzialmente da Fiorentina, Parma e Lazio, fu colmato alla fine da un Milan fortunato e situazionista ma tuttavia lussuoso, col senno di poi: Maldini, Costacurta, Albertini, Weah, Boban, Leonardo e citeremmo volentieri anche Bierhoff, che non era Ibra ma comunque un signor centravanti. Il paragone può reggere? Quello che stiamo vedendo in questi mesi è uno sport un po' diverso da quello che conoscevamo fino a marzo. I gol a grappoli, generosamente concessi anche da squadre da primissime posizioni, e le tante pause tecniche e tattiche ammirate anche in una partita che esige una concentrazione d'acciaio come il derby ci inducono a pensare che andrà avanti così ancora a lungo (il frullatore di partite ogni tre giorni di certo non aiuta a liberare la mente e riordinare le idee). Alla quarta giornata siamo già alle prese con le prime squadre consumate dal tran-tran o divorate dall'ansia: la faccia di Antonio Conte sarebbe perfetta per la pubblicità del Lexotan. E questo ci porta dritti al punto 2.
2. La striscia di 20 risultati utili consecutivi di Pioli, traguardo che un allenatore del Milan non tagliava dai tempi di Capello, è spiegabile innanzitutto con la leggerezza di partite quasi sempre poco importanti o impegnative. Quando c'è stato in ballo qualcosa di grosso – la fase a gironi di Europa League, non esattamente il Sacro Graal – il braccino ha tremato, e non poco. L'entusiasmo giovanile è una gran bella cosa, ma è nella sofferenza che si diventa adulti. Da questo punto di vista il secondo tempo del derby deve rendere ottimisti i milanisti ancora più del primo: la stessa squadra che a febbraio si era pietosamente sfarinata sotto i colpi di Brozovic e soci stavolta ha tenuto botta, non ha derogato di un centimetro e ha vinto di sciabola e di tigna, doti che latitavano dallo spogliatoio da circa un decennio. E questo ci porta dritti al punto 3.
3. “Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla”, si legge all'inizio di Frank Costello faccia d'angelo, grande noir di Jean-Pierre Melville. È una frase presa dal Bushido, il codice di condotta dei samurai, che in certe notti di luna buona pare essere stato scritto per intero da Zlatan Ibrahimovic. A 39 anni ha vinto il 75 per cento di duelli aerei nella metà campo dell'Inter, il che fa di lui il miglior antidoto al potenziale veleno della costruzione dal basso a oltranza (vedere per credere il rigore regalato dalla Roma al Benevento). E poi naturalmente c'è lo smisurato esempio che fornisce in ogni momento ai compagni, alcuni dei quali trasfigurati come Calhanoglu che ha smesso i panni del ninnolo innocuo ed elegante per diventare lo scudiero sveglio e intelligente della Montagna Sacra Ibra, che se ti ci arrampichi fino in cima, nelle giornate di sole, puoi vedere il mondo intero. Chiamatela mistica, chiamatela squinternata filosofia da sciamani: ma questo calcio vi sembra meno squinternato? Questo mondo vi sembra meno squinternato? Guardatelo in faccia nell'intervista post-derby, mentre dice “Uno che crede, può fare tutto”: una frase che detta da Ibrahimovic smette di essere un frusto slogan da reality show e diventa la percezione della realtà di un uomo che si è lesionato il crociato anteriore e posteriore a 35 anni, è andato in letargo in America, è stato unanimemente dato per morto e invece giusto l'altro ieri è tornato a casa travestito da vecchio e ha rimesso in ordine il salotto, come Ulisse quella volta che se l'era ritrovato pieno zeppo di gente sgradevole. Ne sono rimasti pochi, con quella faccia.