Nel nome della Rosa
La reinvenzione del cognome. I Giri d'Italia di Balmamion
"Mi dissero che per diventare un grande corridore ci voleva un cognome, anche se lungo, ma tutto d’un pezzo. Come Girardengo. E allora unii Balma a Mion". Parla il due volte vincitore della corsa rosa
Il 31 maggio 1963. Un venerdì. Tredicesima tappa del Giro d’Italia, la Leukerbad-St.Vincent di 152 km con la scalata del Gran San Bernardo. Pronti? Via.
“In fuga con i migliori. Ma a Chatillon, a pochi chilometri dall’arrivo, sentii la ruota posteriore sgonfia. Ballava. Slittava. Non era a terra, non era ridotta al cerchione, ma non teneva. Mi fermo o non mi fermo? Rischio o non rischio? Mi rivolsi all’ammiraglia. C’erano Ettore Milano, il vecchio gregario di Fausto Coppi, direttore sportivo della Carpano, e Raffaele Nicolini, di Bettole di Novi Ligure, meccanico anche di Coppi, famoso perché costruiva cerchioni indistruttibili. Anche loro dubbiosi e indecisi. La strada era in leggera salita. Così fui io a decidere. Frenai, mi fermai, scesi dalla bici, sostituimmo la ruota, ripartii, inseguii e – fortuna, bravura, rabbia - li ripresi all’ultimo chilometro. Forse avrei potuto saltarli sullo slancio. Non lo feci. Vinse Vito Taccone, secondo Giorgio Zancanaro, terzo io, poi Marino Fontana, Guido De Rosso, Vittorio Adorni e Diego Ronchini. Mantenni la maglia rosa per quattro secondi su Zancanaro e 17 su De Rosso”.
Era la settima delle sue dodici maglie rosa, di cui due finali, 1962 e 1963. Franco Balmamion era l’Aquilotto: al suo primo trionfo al Giro aveva solo 22 anni. Poi nel libro scritto da Herbie Sykes, è stato promosso “The Eagle”, l’Aquila del Canavese. E’ stato anche chiamato “il campione silenzioso”, diplomato “il campione ragioniere”, naturalizzato “il Cinese”. Da lui si sono sempre pretese spiegazioni, giustificazioni, delucidazioni, come se la difesa non fosse il migliore attacco. La verità è che era difficile, a volte impossibile staccarlo. A cominciare dal cognome: “Balma Mion. Quando mio zio Ettore, quinto al Giro d’Italia del 1932, mi portava a vedere le corse – ero un bambino -, la gente lo chiamava Magninot, spazzacamino in piemontese, oppure Balma. Balma?, un giorno finalmente trovai il coraggio per domandarglielo, perché Balma? Fu così che mi svelò il nostro vero cognome. Ma quando, sul suo esempio, anche sulla sua spinta, iniziai a correre, mi dissero che per diventare un grande corridore ci voleva un cognome, anche se lungo, ma tutto d’un pezzo. Come Girardengo. E allora unii Balma a Mion. Cominciai a firmare tutto attaccato a scuola, poi anche all’anagrafe. Risultato: una gran confusione. Ufficialmente mia figlia Silvia risulta Balmamion e mio figlio Mauro Balma Mion”.
Lui, Franco, a prescindere dal cognome attaccato o staccato, è tutto d’un pezzo. Sarà l’origine: “Nato a Nole Canavese, residente a Ciriè, sempre nel Torinese, sede di un antico circuito degli assi”. Sarà la storia: “Presto orfano di padre, vigile del fuoco, che morì sotto le bombe il 25 luglio 1943, il giorno in cui cadde il fascismo”. Sarà l’adolescenza: “Prima ragazzo di bottega in una calzoleria, poi operaio in una fabbrica tessile, poi tornitore alla Fiat, e poi all’ufficio collaudi, e poi carrellista, poi ancora assunto in Fiat, ma in aspettativa, ormai già da corridore professionista”. Sarà il ciclismo: “Voce dei verbi faticare, sacrificarsi, soffrire. La Parigi-Roubaix del 1962: mi fermai al rifornimento, stranito, sfinito. Poco tempo dopo per posta mi arrivò a casa una lettera, scritta a macchina, su carta intestata della società, c’era scritto che si biasimava il mio scarso comportamento in corsa. Mi sentii sotto accusa e in colpa. Da quel giorno tirai avanti e rigai dritto, stavo zitto ma facevo parlare le gambe”. Sarà la resistenza: “Ero da corse a tappe. In salita scattavo, in discesa frenavo, in volata ero fermo, ma in classifica ero sempre lì, nel 1967 secondo al Giro d’Italia e terzo al Tour de France”.
Balmamion era passato al professionismo nella Bianchi: “Ma quando vi correvano Baldini, Pambianco e Nencini, chiesi di andare via”. Alla Carpano: “Il general manager era Vincenzo Giacotto. Di ciclismo sapeva poco, ma di uomini e squadre molto. Conosceva, controllava, dirigeva. E scriveva, come quella lettera della Roubaix”. Di tutte le maglie rosa, gliene è rimasta una sola: “L’ho incorniciata, inquadrata e appesa. A casa”. E nel cuore.