Nel nome della Rosa
Quando il Gavia sconvolse il Giro d'Italia di Chioccioli
Quella Chiesa Valmalenco-Bormio l'aveva iniziata in maglia rosa. Poi arrivò la neve a cambiare tutto. Parla il vincitore del Giro d'Italia 1991
Il 5 giugno 1988. Una domenica. Quindicesima tappa del Giro d’Italia, la Chiesa Valmalenco-Bormio di 120 km con la scalata del Passo del Gavia. Pronti? Via.
“Ventidue maglie rosa. Ne ho conservate tre. Una l’ho incorniciata, così com’era, senza lavarla, senza piegarla, senza più toccarla, ha ancora il dorsale attaccato. E’ quella del Gavia”. Franco Chioccioli l’aveva conquistata due giorni prima: “Nella tappa di Selvino, con Valpiana, Resegone, Berbenno e l’arrivo in salita”. L’aveva difesa il giorno prima: “Nella tappa di Chiesa Valmalenco, con il San Marco e l’arrivo in salita”. Poi quella giornata indimenticabile: “Già alla partenza si sapeva che ci sarebbe stato brutto tempo e che il Gavia sarebbe stato impraticabile, ma si partì. Sull’Aprica piovigginava, avrebbero potuto fermare la corsa a Ponte di Legno, invece niente, dell’organizzazione non c’era più nessuno, e si proseguì. Ai primi tornanti del Gavia, dopo Sant’Apollonia, il finimondo, e si continuò”.
Chioccioli, il Coppino più recente del ciclismo italiano, di quella giornata ricorda tutto e tutti: “All’attacco c’era Johan Van der Velde, indossava la maglia ciclamino, era primo nella classifica a punti. Io stavo nel gruppo dei migliori. Finché la pioggia si trasformò in neve e la strada in nevaio. Ero rimasto senza compagni e senza ammiraglia. E siccome l’ultima informazione che ci avevano dato prima di scomparire era che non ci fossero problemi, avevo restituito la mantellina e proseguito con magliettina e manicotti. Io, come tanti altri, per esempio Roberto Pagnin. Da metà salita cominciai a sentire freddo, in cima ero congelato, ma il peggio doveva ancora succedere, perché in discesa le condizioni erano proibitive, tra neve e ghiaccio, nuvole basse e strada esposta, e soffrii ancora di più nella valle, nel tratto fra Santa Caterina e Bormio, quando eravamo flagellati da una pioggia gelata. Il mio unico pensiero era quello di arrivare al traguardo. Ma non era più ciclismo: era pura sopravvivenza. Non era più sport: era storia epica. A me piace il ciclismo epico, ma i tempi cambiano, non erano più quelli di Gino Bartali e Fausto Coppi, ma neppure quelli di Charlie Gaul e Imerio Massignan, erano trascorsi già quasi trent’anni dalla prima volta su quella montagna”.
Tappa all’olandese Erik Breukink, maglia allo statunitense Andy Hanpsten, che l’avrebbe tenuta fino a Milano. “Quel giorno giunsi settimo a poco più di cinque minuti, nella generale scesi al terzo posto a quasi quattro minuti. Il Giro non era ancora compromesso, ma mi demoralizzai. E a Milano fui quinto, a più di tredici minuti da Hampsten. Il freddo mi era rimasto addosso, dentro: la punta delle dita delle mani nera per una settimana e poi un misto di sfiducia, rassegnazione, delusione, rabbia. Perché a volte tra il vincere e il perdere c’è solo un clic, e basta un niente a cambiarti la vita. Per due o tre anni non ebbi più la forza di dare battaglia, come se quel giorno mi fossi svuotato. Mi ripresi solo nel 1991, quando tenni la maglia rosa tutto il Giro tranne in due sole tappe. Ed esiste una bella differenza tra vincere il Giro a ventisette anni o a trentuno: a ventisette avrei avuto ancora una carriera davanti, a trentuno non mi rimaneva che soltanto il finale”.
Chioccioli è tornato una volta sul Gavia: “Ma in macchina, in senso inverso, soltanto per poterlo finalmente vedere. Perché quel 5 maggio 1988 si pedalava in una tormenta, in un’apocalisse, in un incubo, pregando, tremando, resistendo, guardando solo dove finiva la ruota anteriore. E il giorno dopo, come per farsi perdonare, accorciarono la tappa finendo a Merano e saltando una salita che avremmo anche potuto fare”.