Jonathan Dibben, nel nome di Malabrocca
Per completare i 3.352,4 chilometri del Giro d'Italia, l'inglese ha impiegato 6 ore 13 minuti e 59 secondi in più del suo amico Tao Geoghegan Hart. Chi è la maglia nera della corsa rosa
Al Giro d’Italia, a Milano, in piazza del Duomo, è stato il primo al traguardo e l’ultimo della generale: 6.13’59” più del suo amico Tao Geoghegan nei 3.352,4 chilometri dai Peloritani alle Alpi, daAlle Madonie alla Madonnina. Tao primo, lui ultimo. Tao maglia rosa, lui maglia nera. Tao nell’alto dei cieli, lui in fondo alla classifica.
Lui, l’ultimo, la maglia nera del Giro numero 103, l’erede di Malabrocca e Carollo, Pinarello e Piscaglia, Lievore e Zanoni, è Jonathan Dibben. Nelle 21 tappe soltanto due volte è Jon riuscito a entrare nei primi 100 dell’ordine d’arrivo (176 i corridori partiti alla prima tappa, 133 quelli giunti nell’ultima), 63° nella cronometro di Valdobbiadene e 71° in quella di Milano, e un motivo c’è: Dibben è soprattutto un pistard, quindi nelle prove contro il tempo se la cava bene. Invece nelle altre 19 frazioni ha sempre navigato nei bassifondi (più che nella pancia) del gruppo, e confondendosi nel gruppetto – così si chiama quello formato dai velocisti, quando si alleano per arrivare al traguardo entro il tempo massimo – nelle tappe di montagna.
Ventisei anni, inglese di Southampton, un metro e 90 per 78 chili, Dibben era partito da Monreale con una facilitazione: indossava già una maglia nera, anche se solo per metà (l’altra metà bianca e rossa), quella della sua squadra belga, la Lotto-Soudal. Dorsale 123 (1, 2 e 3, un podio ideale, invisibile e soltanto onirico dal suo remoto punto di arrivo), Dibben aveva il ruolo di gregario, cioè aiutante, assistente, mediano se fosse calcio, pilone: la sua specialità è tirare le volate ai compagni sprinter, anche da ultimo - e non si tratta di un gioco di parole - uomo. Ma qui, stavolta, l’australiano Caleb Ewan e il tedesco John Degenkolb non c’erano, e così nel finale di gara Jon, più che tirare le volate, tirava un po’ a campare, risparmiando energie (salvando le gambe, si dice in gergo) per il giorno dopo. Tre settimane sono lunghe da raccontare, ma ancora di più a pedalare. E qualche economia equa e sostenibile bisogna pur farla.
Eppure Dibben è un vincente. In pista ha collezionato tutoli nazionali ed europei, tra inseguimento individuale e a squadre, scratch e omnium, e ha perfino conquistato un oro mondiale nella corsa a punti nel 2016. Tant’è che la sua educazione è stata identica a quella dei più grandi corridori britannici, da Bradley Wiggins a Geraint Thomas: pista e strada, perché la pista garantisce adrenalina, potenza, colpo d’occhio e sforzi più o meno brevi ma intensi oltre la soglia aerobica, e perché la strada dà resistenza, oltre che visibilità e stipendio. Su strada Dibben ha vinto soltanto una volta, ma bene: una tappa al Tour of California nel 2017.
Anche la carriera professionistica di Dibben ha ricalcato quella dei migliori corridori inglesi: prima la tutela della federazione inglese con la formazione in un’accademia e la frequenza sulla pista di Manchester (“Un vero centro di addestramento, poi ci correva per vincere, e vincendo si guadagnano i finanziamenti olimpici”), poi il debutto con la squadra di Wiggins (“Un onore”), la promozione in quella della Sky (“Ero un pesce piccolo in un grande stagno”), una retrocessione nella piccola formazione Madison Genesis, quindi la Lotto-Soudal (“La mia seconda opportunità per stare nel ciclismo di alto livello. Da quel giorno ho fatto tutto per non fallire”).
Il Giro d’Italia è stato la sua prima corsa a tappe lunga tre settimane: “Un’esperienza fantastica, ma anche molto faticosa”. Per l’ultimo posto ha dovuto duellare con un israeliano: “Guy Sagiv. Ma alla fine l’ho staccato di quasi due minuti”. L’Italia gli rimarrà dentro: “Ma l’ho avuta anche addosso. Alla Sei Giorni di Londra del 2018, io e Arthur Blythe correvamo con la maglia della Molteni. Era un omaggio alla vecchia squadra italiana di Eddy Merckx”. Che dire di Tao primo e lui ultimo? “Abbiamo scritto la storia”. Dibben coltiva un sogno: “L’Olimpiade. Ho mancato la convocazione per quella di Rio de Janeiro nel 2016, cercherò di partecipare a quella di Tokyo nel 2021”.