Sabato l’ultimo capitolo del Sei Nazioni 2020, che entra nella storia come il torneo più lungo sul campo, ma il più breve fuori dal campo. Perché le partite si protraggono da nove mesi (la prima il primo febbraio), ma causa pandemia si concludono senza il terzo tempo. Galles-Scozia (alle 15.15), Italia-Inghilterra (all’Olimpico di Roma, alle 17.45) e la decisiva Francia-Irlanda (alle 21.05, tutte e tre in diretta tv DMAX) vivranno solo nei due tempi giocati da 40 minuti più recupero, non nel terzo tempo mangiato e bevuto con il tradizionale banchetto che celebra l’amicizia fra le squadre e lo staff arbitrale. Gli anglosassoni lo chiamano “after match” o “third half”, i francesi “troisième mi-temps”, gli italiani terzo tempo. La sua storia si perde in secoli di spogliatoi e sedi sociali, non ha una Betlemme, non ha una culla, ma vanta storie, leggende e miti. È come se il terzo tempo fosse sempre esistito. “Il terzo tempo, questa magnifica abitudine rugbistica – scriveva Ernesto “Che” Guevara, che giocava nel San Isidro (Che Guevara, il rugby di autori vari, Sedizioni) –, è qualcosa di sconosciuto da noi, eppure è una tradizione che rende questo sport così piacevole”. La squadra di casa ospita la squadra in trasferta e i direttori di gara, nella propria club-house ma anche direttamente sul campo, per una mischia gastronomica, per una touche alcolica, per un sostegno di cori e canti, per una meta comunitaria e umanitaria.
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