Il Foglio sportivo
Che palle, gioca la Nazionale
Una volta speravamo che i nostri campioni venissero convocati. Oggi esultiamo se stanno a casa
Da “Beccalossi in Nazionale” a “Giù le mani dai nipoti di Evaristo” sono passati trentotto anni. Il mitico Evaristo Beccalossi, uno dei pochi giocatori capaci di diventare oggetto di culto anche senza il pallone, è protagonista di un ricordo personale che si è riaffacciato quando l’amministratore delegato dell’Inter, Beppe Marotta, ha tuonato chiedendo “ridurre gli impegni delle Nazionali” e manifestando il risentimento dei club. Era la primavera del 1982 e il centralino del Giornale, dove lavoravo allora, passò una chiamata al telefono “comune” della redazione sportiva. Dall’altra parte un signore mi annunciò: “Rappresento un gruppo di tifosi interisti. Siamo pronti a incatenarci alle inferriate del Castello Sforzesco per chiedere che Beccalossi venga convocato da Bearzot”. A quei tempi club e tifosi spingevano i loro beniamini verso l’azzurro. Si narra che la convocazione di Ruggiero Rizzitelli (Cesena) da parte di Azeglio Vicini alzò la quotazione dell’attaccante nella trattativa con la Roma. Tornando a Evaristo, parliamo di un “atipico” come il suo antenato Mario Corso, entrambi mancini e con un inesistente curriculum in azzurro, ma il “tipico” centravanti Roberto o Rey Pruzzo, che segnava caterve di gol ma la Nazionale la vide solo alla tv. E gli insulti dei romanisti al Vecio furono fragorosi. Allora i sostenitori degli esclusi battagliavano, telefonavano, faxavano (chi poteva). Non credo che i fan di Beccalossi si incatenarono, alla fine. Però sono certo che i loro figli e nipoti, ora, lo farebbero per la ragione opposta. Sic transit gloria nazionalis, verrebbe da parafrasare con un abborracciato uso del latino.
Questo, comunque, non è un commento morale, è la storia di un lungo addio.
Il dirigente più esplicito contro la leva è stato Marotta, ma i suoi colleghi la pensano allo stesso modo, seguiti da tifosi e giornalisti addicted. Trent’anni fa, in provincia, i supporter di squadre come Cesena o Empoli mi chiedevano se i loro giocatori più rappresentativi non meritassero la convocazione. Ora glissano.
Per la Nazionale, noi italiani abbiamo un interesse puramente accademico, nel senso di discussione all’Accademia del Bar Sport, tra un caffè e un bianchino (quando si poteva, ahinoi). Cinquant’anni fa, il 25 ottobre del 1970, Gigi “Rombo di tuono” Riva per la Nazionale immolò gamba, stagione ben avviata del Cagliari e un pezzo di carriera. Succedesse ora, a Immobile o a Barella, più che il “Boia del Prater” Norbert Hof, la bufera investirebbe Federcalcio e Nazionale. Già c’è chi pretende indennizzi e contratta i minuti in campo dei propri giocatori. Tempus fugit. Certo, nel 1982, mentre i fan di Evaristo minacciavano la clamorosa azione pannelliana, di stranieri le squadre ne avevano solo uno (stava arrivando il secondo) mentre ora è il contrario. Il lungo addio all’azzurro o agli altri colori si è consumato a poco a poco accelerando dopo il 2000. Se non si può impedire la convocazione (Regolamento Fifa, Allegato 1) si cerca di ridurre il danno.
Il leggendario Lucianone Moggi, dg juventino, nel 2003, convinse l’oriundo argentino Mauro German Camoranesi a scegliere l’Italia per evitargli i voli transoceanici. Camoranesi non se ne pentì, ma questa è un’altra storia. Gli unici che tengono (ancora un po’) alla Nazionale sono i calciatori. In fondo questo è pur sempre un “giuoco”, come sta scritto nella ragione sociale della Federcalcio. Vogliono “giuocare”, al di là di milioni, capricci e privilegi, come hanno dimostrato tutti quelli fuggiti al diktat delle Asl. Chi l’avrebbe detto che fossero proprio i vilipesi e capricciosi eroi della pedata gli ultimi custodi del patriottismo?