Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza
Prandelli, tra il mite e l'imperioso
L'allenatore dal giorno in cui in Brasile Godin mise fine all’avventura dell'Italia ai Mondiali del 2014 si è eclissato. Ora cerca di ritornare alla ribalta nella sua Firenze
Se si chiamasse Giacomo, sarebbe il tenero, come l’omino coi baffi delle vignette di una volta nella famosa Settimana Enigmistica. Invece si chiama Cesare, come il condottiero dell’antica Roma. Prandelli è l’uomo equidistante, tra il mite e l’imperioso, al centro di un equivoco che ormai si porta dentro dal giorno in cui, nella citta di Natal, nord est del Brasile, l’uruguagio Godin, mise fine all’avventura degli Azzurri ai Mondiali del 2014. L’Italia fu eliminata da un gioco stanco, il proprio, e un arbitro messicano di nome Marco Rodriguez. Ci espulse Marchisio più o meno a metà gara, e poi guardò da un’altra parte quando Suárez affondò il canino su Chiellini. Entrambi i fatti fecero gridare al complotto, ipotesi ardita ma mica tanto. Ci fu un’inchiesta sul messicano, così severa che lo portò a dirigere addirittura la semifinale tra Brasile e Germania, quella dell’uno a sette. Quando si dice la condanna! Prandelli si dimise un’istante dopo la sconfitta, pagando l’ingiustizia, alcune scelte tecniche sbagliate, e la fragilità della nostra politica del calcio, in un momento in cui Sepp Blatter era ancora bello ritto, sopra un precipizio chiamato corruzione. Da quel momento, l’istante in cui si alza dal tavolo di Natal dopo aver detto addio, il tenero Giacomo prende il sopravvento su di lui dimenticando Cesare. Sbatte la testa in Turchia, in Spagna, negli Emirati, per poi tornare in Italia, al Genoa, con dietro un coro di voci nere che lo inseguono. Il tenero non si scompone, non ha paura, vive a Firenze e tifa viola, con l’abbonamento in tasca. È un uomo di principi, lo ha dimostrato già. Il suo calcio, così tradizionale (palla avanti, palla indietro) e artistico (la tecnica prima di tutto), era un esempio. Si guarda intorno e vede un deserto di persone, nessuno di quelli che una volta lo corteggiavano gli sorride. Ha solo sessantatré anni, ma lo dichiarano finito, pronto per la pensione. Cesare osserva il mare, poco distante da Firenze, zona Versilia. Fissa un punto all’orizzonte, rivede il passato e pensa: non è successo secoli fa, è accaduto ieri, accidenti. Ero l’allenatore più amato, mi volevano un po’ tutti. Che cosa è stato, che cosa è stato, ripete a se stesso in un fare manzoniano. Ora ritorna, appeso a un filo lungo soltanto sette mesi, quanto il suo contratto. È in cerca di una risposta definitiva a quella tormentosa domanda. La troverà soltanto in mezzo ai risultati, nella città che lo ha adottato e che lo ama così com’è: un allenatore capace, un uomo semplice, tra il mite e l’imperioso.